“Nell’ascoltare Faussone, si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al lettore: il termine «libertà» ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile per il consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”.
Primo Levi, La Chiave a Stella
Sono passati diversi anni da quella mattina, ma non devo sforzarmi per ricordare, la vedo ancora.
Ero in acciaieria e giravo per le campate in cui si preparano le placche per colare a lingotto; in quelle dei forni, dei bruciatori, delle passerelle di colata e tutt’intorno il mondo siderurgico: enorme e lento, con le macchine che sollevano decine di tonnellate e lavorano materiale a migliaia di gradi. Gli operai quasi non li vedi in quella grandezza. La polvere brucia gli occhi. Le sirene chiamano le secchie. L’urlo assordante del rottame nel forno fusorio. Rumori e bagliori: è la dialettica dell’acciaieria, non è una mia invenzione. Io mi trovavo solo a passare vicino al convertitore Aod quando mi resi conto che qualcosa non andava: sta facendo reazione, pensavo, temevo. Dopo un istante c’era solo rosso: scintillava rosso, pioveva rosso, tutto il mondo sembrava una luce rossa e sempre più calda. Era stata violenta e breve. Guardai verso il piazzale del convertitore e vidi i ragazzi uscire dal pulpito, le carpenterie di bordo macchina piegate; le canaline, le scatole, le prese, tutte le parti plastiche, sciolte. Qualcuno disse: c’è l’elettricista sull’impianto.
Lo avevano chiamato i pulpitisti per un guasto su uno dei nastri che portano le leghe nel convertitore e lui era intervenuto: manutenzione. Il fabbricatore Aod doveva aggiungere alluminio per riprendere il cromo salito nella scoria e così fece: produzione. Un errore di riporto nei calcoli faceva inserire un quantitativo quasi doppio di materiale e si generava la reazione esotermica: varianza. Vedemmo l’elettricista scendere dall’impianto con movimenti goffi, lo sguardo ottuso e pareva rimpicciolito nell’enormità dell’incidente, nell’ aria ancora rossa e spessa: quasi infortunio. È un ciclo semplice, lo ammetto, ma conserva il suo fascino e qualcuno probabilmente gli dà ancora importanza: eventi, variabili, effetti e una volontà di razionalizzare difficile da raggiungere.
A fine mattinata avevamo organizzato una riunione, in acciaieria, per parlare dell’accaduto. Nella saletta c’erano responsabili di ogni specie, tecnici, dirigenti, i manutentori in turno e gli operatori del convertitore. Un responsabile aveva scritto alla lavagna “cultura dell’acciaieria” e lanciato il pennarello sul tavolo. Un manutentore chiedeva se fosse nella cultura dell’acciaieria fermare gli impianti? Parlavano un po’ tutti, perché c’era volontà di risolvere. Parlavano i responsabili: bisogna attenersi ai dati e capirne il valore, e così saltavano fuori numeri e frecce e per chi aveva l’intelligenza matematica del “qualche” era difficile capire. Parlavano i manutentori: interveniamo anche se l’impianto è in marcia perché è il nostro mestiere. Sapete che è sbagliato? No. Ma che valore hanno interventi pianificati così? Ci sembra giusto andare subito, e così saltavano fuori il mestiere e la giustizia e per chi misurava con logiche produttive era difficile capire. Sembrava rappresentassimo due stili di vita e ci immaginavo a giocare a guardie e ladri tra gli impianti della vecchia fabbrica. Ma in fondo la partita aveva un risultato più o meno stabilito, si trattava di arrivarci insieme, perché ci è sempre piaciuto credere nel potere curativo delle riunioni.
Che valore ha la pianificazione in un intervento manutentivo? Fu un balzo anarchico a mettere in discussione l’imbeccata: se mi chiamano, prendo la cassetta degli attrezzi e parto. Così sbottò un meccanico in aiuto al collega elettricista; lo si poteva rimproverare, fosse stata ragione, ma era sentimento, ed io me lo vedevo con la sua cassetta degli attrezzi non più operaio nel reparto deserto, ma uomo con una missione ed un destino da affrontare. Visioni strampalate, meglio restare su dati e valori. Linee che salgono, linee che scendono. Pennarello verde: va bene. Pennarello rosso: va male. Il problema è la pianificazione, oramai ne eravamo sicuri, che però, diceva un responsabile di manutenzione, non è ancora nella nostra cultura, e profetizzava percorsi futuri. Noi abbiamo la cultura del sporcarci le mani, ribatteva l’anarchico e con quel “noi” tirava su un muro fatto di interessi diversi, punti di vista diversi, livelli diversi, antipatie da organigramma che trasudavano dai suoi occhi; passava tutto su quello sguardo, rabbia, rancore, repulsione, a cui prestò anche la voce e se ne uscì con una frase capace di sbaragliare qualunque argomento: e di cultura dei soldi… quando ne parliamo? La riunione continuò, come forse direbbe un sociologo, con chi “dirige” a ricercare la visione integrata della molteplicità degli eventi, la loro scientificità, la fenomenologia della fabbrica; e “i pratici” che erano concentrati su sottosistemi empirici quali il reparto, il gruppo e l’individualità. Io non ho mai saputo costruire teorie sociologiche e allora mi godevo la sensazione di trovarmi tra due mondi; seguivo l’imprevedibile avventura dell’uomo-a-lavoro; guardavo le persone intorno a me, con tutte le loro bellezze e le loro miserie, con l’oscuro sentore che, se vuoi credere nel miglioramento, non devi passarci troppo tempo insieme.
Fu dunque in una mattina autunnale, un quarto d’ora prima delle sette, lungo i capannoni dai grigi variopinti, che, con una rossa ventata d’aria molto calda, ci venne incontro l’idea di cambiare il nostro approccio nell’intervenire sugli impianti in marcia: pianifica e metti in sicurezza. E, per quel che mi riguarda, divenne più forte il bisogno di capire cosa succedesse tra quei lavoratori che non compaiono nell’organigramma aziendale; approfondire i temi della socializzazione e della collaborazione, della demoralizzazione e del conflitto; quale fosse il segreto legame tra il mestiere e il giusto e quale ruolo dovessi giocare in tutto questo.
Le righe che seguono non sono una testimonianza aziendale, sono personali; sintetizzano di un formatore artigiano e praticante che gira lungo un fiume a raccogliere sassolini e di un periodo di non pacifici confronti e riflessioni.
Avevo quasi quarant’anni, una posizione di privilegio, l’interno di un’acciaieria, un mestiere da indagare, la manutenzione, e una parola magica, cultura. Siccome che ai problem solving e robe simili, a lungo andare, finisci col crederci, mi venne naturale cominciare con un brainstorming con me stesso: lavoro gruppo mestiere calcio competenze fatica pause donne formazione caffè produzione abilità piacere tecnica ed altre parole più o meno comprensibili, ma che di fatto riempiono le giornate nelle campate dell’acciaieria. Non me ne vorrete se, in questo racconto, ne ripercorrerò brevemente solo una e se, nella scelta, non seguirò logiche né sillogismi. Sono certo che non vi stupirò se, spingendo sull’acceleratore, scrivo che l’abilità nel manutentore venga spesso ridotta o ad accessorio delle nuove tecnologie o ad un elementare saper eseguire un compito in una precisa e prestabilita maniera.
Lontano dal voler negare l’importanza degli aspetti professionali ed utilitaristici, e le aspettative immediate della produzione, non sarei onesto se non scrivessi che, trattando le abilità come qualcosa di puramente strumentale, se ne perda il valore culturale, l’essenza, che, invece, rimanda al possedere, all’afferrare e, più giù, ad un percorso di consapevolezza del fare. L’abilità manuale è un susseguirsi di operazioni coscienti e di conoscenza. Afferrare una cassetta degli attrezzi non è come starnutire: è un gesto volontario. Abilità e volontà non sono separate e il loro legame sono gli strumenti, gli utensili; e nel lavoro che si prospetta ti confronti con la tua capacità di accogliere le sfide, le tue forze, il tuo progettare e proiettarti: saper essere e saper divenire, ovvero saper essere di più e diversamente.
C’è un guasto, parola dura e malata, che suona già come una dichiarazione di guerra, e la mano prensile si arma di una cassetta degli attrezzi e parte per quella lotta che è il lavoro quotidiano. Non ci si può accontentare delle perlopiù misere pagine dei manuali d’uso e manutenzione, della rincorsa alle soluzioni già date; l’abilità mette in gioco la capacità pratica di fare bene il proprio lavoro e la volontà di immaginare e superarsi. In quegli anni realizzai un progetto formativo strutturato sulle abilità e non a caso lo intitolai La Cassetta degli Attrezzi. Era un progetto vero e pro proprio: titolo, obiettivo, competenze da acquisire e tutte le tabelle del caso, con alcuni paletti. PNL? No grazie. Leadership? Ho smesso. Comunicazione Efficace? Me ne dia al massimo un etto. Gruppi di lavoro? Sì, quelli sì. Motivo principale? Perché il gruppo è un bene concreto. Perché saper stare insieme, scegliere insieme, capirsi nelle difficoltà, coprirsi negli errori, giocare e sorridere, sono gesti che impongono di vincere sul nervosismo, sulla stanchezza, sulla fissazione della busta paga e dei livelli, sulle pressioni e incomprensioni aziendali, sui problemi a casa.
Nel progetto era anche presente la parte, diciamo così, istituzionale, di istruzione e di addestramento; l’impegno è stato, tuttavia, quello non di creare regole, ma punti di riferimento, orizzonti di valori, capacità di analisi e critiche, consapevolezze sparse. Non volevo formare lavoratori, ma educarci-tra-adulti. Educarci ad indagare ed ipotizzare significati e contenuti; ad inserire nel dinamismo del lavoro un’idea di abilità che renda capaci di padroneggiare un laboratorio di tecniche diverse, legate all’immaginazione, in una didattica del fare bene. È in questo impegno che penso di aver trovato il senso dell’abilità: la volontà di esprimere nel lavoro qualcosa di buono su e per noi stessi, l’impulso artigianale a fare bene “e quindi nel provare piacere a svolgerlo”.
Levi era un uomo straordinario; ci prendeva per braccio e ci riempiva gli occhi dei suoi paesaggi immensi usando una parola che ha mosso la storia: libertà, e ci invitava a riflettere su come la si possa legare al lavoro e alla competenza. Per me, che sono ordinario, è una traccia destinata, per ora, a restare un enigma e mi accontento di chiudere il cerchio così. Non credo che da ciò che ho scritto si possa imparare molto. Vi propongo riflessioni sparse, forse, sul fatto che gli eventi semplicemente accadano ed abbiano conseguenze fuori e dentro di noi; forse, che il lavoro si mescoli con la cultura, l’affetto e l’integrazione; forse, che l’utile e il funzionale non debbano necessariamente escludere il bello, il piacere, l’etico, l’impegno personale; forse, che il cervello possa fare tutt’uno con le mani; forse, che non sia facile mantenere la speranza che si possa migliorare, eppure che si debba continuare a provarci.
Io non ho mai saputo costruire teorie sociologiche; volevo raccontarvi una storia e lasciare qualche indizio, un po’ come, credo, farebbe un formatore artigiano e praticante che volesse rilanciare in acqua i sassolini raccolti durante una passeggiata lungo un fiume.
Lorenzo Valmachino, Formatore, ASPP dell’Area a Caldo, Manutenzione e Qualità, Cogne Acciai Speciali