La tragedia di Genova, il crollo del ponte Morandi, è l’ultima in ordine di tempo che ha colpito il sistema delle nostre infrastrutture legate al trasporto su strada e ferrovia. Non è, di certo, questo editoriale la sede corretta per fare analisi tecniche dell’accaduto; d’altronde, non si vuole neanche partecipare allo sport, ormai purtroppo diffuso in Italia, della caccia all’untore senza prima aver approfondito la ricerca delle cause e le responsabilità.
Come uomini di settore, vogliamo ritornare sul concetto di “manutenzione”, parola di cui in questi giorni – e nel caso di disastri del genere – tutti si riempiono la bocca, molte volte senza sapere effettivamente cosa significa nei vari contesti interessati. Vogliamo ritornare sul concetto di “manutenzione” senza considerarlo disgiunto dalla “gestione del ciclo di vita” del bene: questa è infatti la sfida richiesta quando si deve impostare un sistema per la presa di decisioni capace di garantire il valore, tangibile e intangibile, di un’infrastruttura.
Le infrastrutture legate al trasporto sono tra i beni più difficili da manutenere in quanto il loro “profilo di missione”, al di là della generica funzione di trasporto, è legato ad una pluralità di fattori variabili nel tempo, spesso anche in modo non lineare. Tali fattori richiedono scelte in vari ambiti – dalla progettazione alle operations e la manutenzione dell’infrastruttura – che siano robuste, nonostante le incertezze intrinseche legate alla variabilità.
Un profilo di missione “lungo” – come quello atteso per infrastrutture del genere del ponte Morandi – può portare a non tenere, se non in parte, in considerazione eventuali variabili di contesto influenti sull’infrastruttura, ad esempio non prevedendo l’effetto di interdipendenze con altre infrastrutture che possono avere impatto sul carico di lavoro dell’infrastruttura in esame (nel caso di Genova, si può pensare allo sviluppo portuale). Possono esserci anche delle incertezze sui fattori tecnici rilevanti per l’esercizio (ad esempio, velocità, pesi e portate dei veicoli stradali e ferroviari) e sull’evoluzione normativa in funzione dello sviluppo delle conoscenze tecniche e gestionali.
Può esserci l’effetto del ciclo economico, più o meno vincolante sulla capacità di spesa nell’esercizio dell’infrastruttura. Infine, non si possono dimenticare altri fattori generali legati all’ambiente, come il degrado del territorio, ciò che è, evidentemente, fattore caratteristico del nostro Paese, o gli effetti dei cambiamenti climatici.
Va da sé che il combinato disposto di anche solo alcuni fattori tra i citati porta complessità e, potenzialmente, condizioni critiche per le infrastrutture.
Tutto questo richiede un “sistema di gestione del bene” ben organizzato. In questo sistema, i piani di manutenzione per le infrastrutture, vale a dire per beni destinati a durare decine di anni, devono essere concepiti secondo criteri che non possono essere definiti una tantum; tali criteri, invece, possono e devono comportare la revisione e l’adeguamento continuo dei piani stessi, per tenere in conto – in maniera “dinamica” nel tempo – le incertezze. In questa visione “dinamica”, assumono importanza fondamentale il monitoraggio dello stato di salute dei beni, la diagnostica che ne consegue e, ultimo ma non meno importante, la capacità e possibilità di un intervento regolato in funzione della necessaria priorità al lavoro che, in alcuni casi, richiede immediatezza, e non tempi lunghi, per evitare il danno.
La determinazione delle priorità necessita, con maggior importanza, di un’attenta e puntuale valutazione dei rischi per la definizione e, quindi, nella “dinamica” di gestione, la corretta programmazione nel tempo di azioni mitigatrici, correttive e preventive. Per restare al caso di Genova, è proprio di questi giorni (ndr: mentre l’editoriale viene scritto) la notizia di una gestione delle priorità che non sembra da manuale, nonostante fossero disponibili elementi utili di diagnosi tecnica a riguardo delle parti che hanno portato al crollo.
Ritornando su un piano più generale, non è giustificabile che eventuali ritardi siano dovuti alla presenza di decisori diversi (nel caso, dal concessionario, al ministero o chi altri …): l’organizzazione e gestione dei lavori devono rispettare le esigenze del bene in sé, al di là di chi lo possegga o ne detenga la concessione, perché ciò vuol dire garantirne il valore, in termini di sicurezza e, più in generale, sostenibilità economica e ambientale.
Tale affermazione, a nostro parere, deve, poi, suonare tanto più vera quanto il valore è legato ad un bene per la comunità socio-economica che a quell’infrastruttura è interessata. Nel caso specifico, potremmo affermare* che un’approfondita gestione del rischio – non solo una sua valutazione – avrebbe portato immediatamente a ridurre la circolazione (azione correttiva) in attesa di mettere in campo le azioni preventive individuate.
In definitiva, il manutentore ha oggi una serie di strumenti e di conoscenze che non c’erano cinquanta-sessanta anni fa: il suo lavoro, in un processo di collaborazione che coinvolge – per il valore e interesse comune – più funzioni e organizzazioni, può consentire ad un bene di completare correttamente il proprio ciclo di vita, creando e/o non distruggendo il valore per cui il bene è pensato. Stiamo quindi parlando di una diversa gestione dell’infrastruttura del trasporto, secondo le impostazioni dell’asset management.
Prof. Marco Macchi, Direttore Manutenzione T&M
Bruno Sasso, Coordinatore CTS Manutenzione T&M
*Ripetiamo: non intendiamo fare analisi tecniche di dettaglio e quindi trarre delle conclusioni sul caso che esulano da questo editoriale, intendiamo fare un ragionamento per imparare, a futura memoria di casi tragici come questo.