Gli inglesi dello British Standard (BSI), agli inizi degli anni Settanta, definirono la manutenzione come “… una combinazione di direzione, finanza, ingegneria e altre discipline, applicate ai beni fisici per perseguire un economico costo del ciclo di vita”. Ma è ancora così?
Il BSI, riguardo alla manutenzione, fece una sintesi molto interessante e attuale rispetto alle varie definizioni disponibili allora, coniando un neologismo: “Terotecnologia”, derivato dalla parola greca Teros che significa conservare, quindi una tecnologia della conservazione.
Un concetto che negli anni è stato sviluppato e si è poi concretizzato nella sostenibilità. Ma questo è solo l’aspetto filosofico della vicenda. C’è molto di più.
Che ne è stato oggi di quel mix di expertise individuato allora? Che ne è stato della combinazione di direzione, finanza, ingegneria e altre discipline?
Dare una risposta non è facile e si rischia di generalizzare. Ciascuno di noi dovrebbe fare un pensiero su questo argomento e trovare le sue risposte. E poi condividerle per farne una sintesi.
Avere queste risposte è molto importante perché indirizzano chi realizza i programmi scolastici e chi si accinge a studiare la materia per diventare un futuro tecnico o per estensione un futuro docente di questa meravigliosa materia.
La chiave per capire cos’è diventata la manutenzione, a mio parere, sta nella parola informazione.
Negli anni Settanta, quando iniziai da studente a occuparmi di manutenzione, fra i libri consigliati c’era “Manutenzione Secondo Condizione”, di Luciano Furlanetto e Asturio Baldin. Lì nacque quel dibattito, ancor oggi vivace in Italia, fra manutenzione su condizione e manutenzione predittiva.
Allora la manutenzione predittiva era riservata a impianti molto critici. Perché diversamente dalla manutenzione su condizione, che si basava sulla misurazione puntuale di una o più grandezze fisiche o su uno o più stati delle macchine, la manutenzione predittiva presupponeva la rilevazione di un gruppo di misure della medesima grandezza, l’interpolazione di queste misure e la successiva estrapolazione nel tempo per prevedere l’istante in cui detta grandezza fosse risultata critica e quindi il sistema sottostante a rischio.
Allora pensare alla raccolta e alla manipolazione della miriade di dati necessari per realizzare la predittiva sembrava una impresa riservata a chi gestiva aeromobili, impianti nucleari e cose simili, utilizzando mega computer e una sensoristica di avanguardia. Non era certo il tempo di Big Data.
D’altro canto, non immaginavo, allora, da studente, che la Manutenzione sarebbe diventata la mia professione né che alla fine del 1982 avrei incontrato Luciano Furlanetto, quello del libro, e che qualche anno più tardi saremmo diventati soci, in una impresa che si occupava esclusivamente di Manutenzione.
In quegli anni, seguendo da vicino l’evoluzione della manutenzione in Francia, mi appassionai ai primi incerti tentativi di creare sistemi esperti, di prevedere il comportamento dei sistemi con metodi induttivi come l’AMEDEC (in inglese FMECA) e molti altri.
Strumenti che derivavano dall’ampia esperienza francese nel nucleare, mondo divenuto in quegli anni problematico, e che i francesi guidati dall’AFNOR e dall’AFIM, cercavano di riversare nel mondo più tranquillo dell’industria manifatturiera, recuperando almeno in parte gli investimenti fatti.
In Italia, i miei colleghi erano tutti molto scettici riguardo a informatica, algoritmi, strategie di problem solving, ma grazie soprattutto al sostegno di Furlanetto, negli anni a venire, questi argomenti divennero uno dei punti di forza della nostra piccola società.
Oggi è tutto molto più chiaro perché siamo consapevoli di avere a disposizione una massa di dati sul funzionamento delle macchine impensabile anche solo dieci anni fa. E quindi l’importanza degli algoritmi, dei metodi con i quali trattare questi dati a nostro vantaggio, è diventata soverchiante.
Così importante che, come abbiamo visto nello scorso numero della rivista, si è diversamente riversata persino sulla organizzazione e sui processi che la sostengono.
Cercare una via di modernità non è facile, si fanno un sacco di tentativi ed errori, ma se vogliamo uscire dalla terra di mezzo ed essere fra i primi ad andare verso il non ancora, è una attività necessaria.
Lo scorso 15 settembre, a Sarsina, in Romagna, un piccolo paese nell’Alto Savio, ha aperto una sezione staccata dell’ITT “Guglielmo Marconi” di Forlì. È stata voluta a furor di popolo da un manipolo di imprese locali che, guardando al futuro, hanno compreso l’esigenza di avere tecnici ben formati. Un elemento chiave affinché queste imprese possano svilupparsi e prosperare.
Le imprese hanno investito nella ristrutturazione dei locali nella scuola, hanno investito per il loro futuro, hanno investito per “avere un futuro”.
L’unica sezione al momento aperta è quella di Meccatronica. A margine dei corsi ufficiali, ha aperto anche una sezione del Fab Lab Romagna, già attiva a Forlì, Cesena e Rimini. Si, perché i ragazzi hanno bisogno di corsi formali con lezioni frontali e laboratori, ma hanno anche bisogno di uno spazio creativo come quello del Fab Lab, per inventare, per “spaciugare”, per cercare una loro via alla modernità che in questo momento nessuno conosce bene, ma come disse qualcuno “chi si ferma è perduto”.
È un po’ la lezione della Montessori (o più recentemente di Seymour Papert, allievo di Jean Piaget), applicata alle materie STEAM (Science, Technology, Engineering, Arts, Mathematics) e nel nostro caso alla Manutenzione.
I ragazzi del Fab Lab a Forlì sono quelli che, utilizzando il loro tempo libero, hanno dato vita a un “gruppo prototipi” che fra le altre cose si occupa di recuperare oggetti fra i rifiuti, ripararli, realizzare upgrade tecnologici (Upcycling) reimmettendo questi oggetti in circolo, nell’uso quotidiano.
Una lezione per gli adulti che faticano a gestire quotidianamente la raccolta differenziata.
Questi ragazzi una volta diplomati diventeranno futuri tecnici di produzione e manutenzione. Una benedizione per il territorio perché non ci si rassegni a un urbanesimo che poi crea concentrazioni critiche di persone con relativi problemi di inquinamento, di traffico e, in questo periodo feroce, di Coronavirus.
Sono consapevole di non aver chiarito che cos’è la manutenzione oggi, né tantomeno ho risposto alla domanda iniziale. Ma è così. Annusiamo, proviamo, riproviamo, siamo testimoni di un mondo che cambia velocemente, che ci circonda di esempi negativi, ma anche per fortuna di molti esempi virtuosi e positivi.
Fatevi anche voi le domande. Forse farsi la domanda è ancora più importante che darsi delle risposte, perché è un modo per non accettare l’esistente, nel calduccio della propria zona di confort, per andare avanti, per superare le difficoltà della terra di mezzo e andare verso il non ancora. Così facendo alimentiamo la speranza che il futuro sia migliore del presente.
Maurizio Cattaneo