Il concetto di sviluppo sostenibile è stato definito da diverse fonti. La definizione dovuta alla Brundtland Commission è molto citata: per sviluppo sostenibile si intende lo “sviluppo che risponde ai bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai propri bisogni” (in inglese “development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs”, United Nations General Assembly 1987). Lo sviluppo sostenibile è, e sarà, una questione cruciale per le generazioni presenti e future.
Diverse sono le prospettive attraverso le quali si può discutere di sviluppo sostenibile e di sostenibilità. In questo editoriale, voglio solo fare una breve riflessione per motivare la scelta di proporre l’approfondimento mensile sul tema della sostenibilità, con l’intenzione che tale approfondimento possa diventare un appuntamento fisso da ripetersi ogni anno. Riporto, di seguito, alcuni assunti generali su cui la scelta editoriale si fonda.
La sostenibilità è un obiettivo primario che abbraccia tutti i campi, dalla cultura, passando per l’economia e il sociale, sino al campo delle tecnologie.
Essere sostenibili è, prima di tutto, un “dovere” civile che ogni individuo dovrebbe sentire alla base del suo comportamento, indipendentemente dal fatto che si trovi a svolgere un’attività che riguarda la sfera personale piuttosto che professionale.
La gestione degli asset e la manutenzione hanno nelle proprie “corde” un’attitudine che, naturalmente, le spinge verso un modello di comportamento ad elevate caratteristiche di sostenibilità.
Nella manutenzione è fondamentale la parte sociale. Le persone sono un fattore importante, se non “il fattore”, per molte ragioni. La sicurezza delle persone è una ragione ovvia. D’altra parte, ci sono molte altre ragioni che portano alla centralità dell’uomo. Riscontro sempre di più, come fattori critici di successo, elementi soft che sono la condivisione delle conoscenze ed esperienze maturate negli anni. Anche questi sono fattori vincenti per avere sostenibilità nel lungo termine, e non si collocano solo entro il limitato perimetro della singola azienda, nella quale il gruppo in cui si lavora diventa contesto naturale in cui condividere conoscenze ed esperienze. Si pensi anche alle comunità di pratiche in cui ci si trova coinvolti, sia perché tali comunità sono istituzionalizzate attraverso, ad esempio, processi/progetti di benchmark, sia perché la condivisione è una naturale “estensione” dell’attitudine a vivere, con passione, la manutenzione: l’esigenza di scambiare, “tra pari” in una specifica community, conoscenze ed esperienze che ciascuno va maturando non è un’esigenza che è naturalmente sentita da chi vive, con passione, la manutenzione dei propri impianti?
Tanto più si sfruttano le conoscenze e le esperienze di manutenzione in un quadro integrato – quello promosso dalla gestione del ciclo di vita degli asset –, tanto più si crea un contesto di proficuo sviluppo di idee creative e azioni che è favorevole per la generazione di valore dagli asset. E’, infatti, in questo contesto che si generano le opportune sinergie, quando cioè cambia il clima organizzativo, e l’orientamento al ciclo di vita degli asset e alla gestione dei rischi associati agli asset permettono di canalizzare efficacemente conoscenze / esperienze delle diverse funzioni aziendali, come la Manutenzione. In un siffatto contesto, il sistema socio-tecnico che è l’azienda tende a muoversi in maniera più coordinata, e, nei migliori auspici, il coordinamento permette di indirizzare gli sforzi verso obiettivi di lungo termine, che sono fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale.
Pensando alla “messa a terra” dei suddetti principi nelle normali operations aziendali, nasce l’esigenza di definire e progettare i giusti mezzi per favorire il coordinamento tra le diverse funzioni aziendali, a garanzia di una gestione del ciclo di vita degli asset che risponda ad obiettivi di sostenibilità di lungo termine. A tal fine, sottolineo la cultura del dato, come un ingrediente fondamentale, come, d’altra parte, è fondamentale la cultura ingegneristica che è rappresentata dalle persone nell’organizzazione aziendale. Operativamente, la cultura del dato può certamente beneficiare dei mezzi forniti dalle innovazioni tecnologiche di cui si parla molto oggi (nel precedente editoriale, abbiamo discusso di big data e manutenzione). Ma vediamola prima di tutto come cultura del dato, in sé, non mitizzando troppo la “magic box” della manutenzione “in salsa” industria 4.0. Credo, infatti, che, come tutte le innovazioni tecnologiche del passato, anche le innovazioni di oggi e dei prossimi anni possano portare a far evolvere le pratiche aziendali. Ciò nondimeno, come ingegnere, le vedo sempre come un mezzo, al centro c’è l’uomo: non solo per le esigenze che esprime in ottica di sostenibilità, ma perché è portatore di conoscenze ed esperienze, senza le quali la “magic box”, da sola, non può funzionare tanto bene. In altre parole, il ruolo delle tecnologie 4.0 è, e rimane, pur sempre quello di un abilitatore per innovare la gestione degli asset e della manutenzione. L’innovazione è però “tirata” dalla necessità di garantire la sostenibilità nel lungo termine; e si sviluppa partendo da un terreno già fertile, con l’humus fondamentale che è quello delle conoscenze ed esperienze a matrice tecnico-ingegneristica delle persone che “vivono” l’impianto industriale.
Mi ritrovo, così, in perfetta sintonia con alcune affermazioni di un articolo pubblicato proprio in questo mese: in questo articolo si parla della “cassetta degli attrezzi” come uno strumento della quotidianità della manutenzione, e, ancor di più, come uno strumento fondamentale perché “afferrare una cassetta degli attrezzi non è come sternutire: è un gesto volontario” (ndr del manutentore). Aggiungo la mia interpretazione: vedo questo gesto quasi come una ritualità che è la manifestazione di tante conoscenze ed esperienze che le nuove tecnologie possono certamente complementare, ma che non possono sostituire, almeno per un po’ di anni.
Ecco perché punterei di più l’attenzione sull’uomo prima che sulle tecnologie. A tal riguardo, riporto ancora un estratto dell’articolo citato, che ritengo particolarmente espressivo di un sentire comune, e che io interpreto con un legame stretto con la centralità dell’uomo. Di fatto, condivido questo estratto, parola per parola; anzi, sono anche un po’ invidioso per non essere stato in grado di scriverlo… “Non volevo formare lavoratori, ma educarci-tra-adulti. Educarci ad indagare ed ipotizzare significati e contenuti; ad inserire nel dinamismo del lavoro un’idea di abilità che renda capaci di padroneggiare un laboratorio di tecniche diverse, legate all’immaginazione, in una didattica del fare bene. È in questo impegno che penso di aver trovato il senso dell’abilità: la volontà di esprimere nel lavoro qualcosa di buono su e per noi stessi, l’impulso artigianale a fare bene “e quindi nel provare piacere a svolgerlo” (cit. Lorenzo Valmachino).
Prof. Marco Macchi, Direttore Manutenzione T&M