Signore, e noi, che dobbiamo fare?
- È chiaro - disse don Chisciotte - sostenere e soccorrere i più bisognosi e più deboli.
(M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)
Dopo aver concluso il recente racconto sul “Grande Capo” Gianfranco Trevisan [vedi Manutenzione T&M, numeri da Febbraio a Giugno 2018], con questo numero cominciamo una nuova avventura di “Racconti di Manutenzione”. Si tratta di un nuovo viaggio – curato anch’esso dalla penna di Lorenzo Valmachino, Tecnico Lean della Cogne Acciai Speciali – che ha stavolta una coppia di protagonisti: uno è umano, Alberto (non ne riveleremo il cognome), figlio come tanti dell’emigrazione del Novecento sulla tratta Est-Ovest d’Italia; l’altra è virtuale e accompagna il primo per tutta la carriera: è la Sicurezza, concepita in acciaieria negli anni Sessanta e compagna della vita lavorativa di Alberto. Dal loro intreccio nasce una storia che, come sempre, Valmachino condisce con il suo stile coinvolgente, capace di trasportarci in un mondo fatto di valori (forse) perduti, di industria, di manutenzione.
Alessandro Ariu
Capitolo 1 - Biciclette e ombre de vìn
Si dice che una storia prenda significato a seconda del punto da cui si comincia a raccontarla. Questa storia inizia così: - Mio padre era del Veneto, di Gambellara, vicino Vicenza… Da lì viene tutta la mia famiglia, tutti migliori di me - poi precisa - come soldi - e mi parla di venditori di piastrelle, allevatori di cavalli ed altri – ricconi anche loro […]. Mio padre non era di quella categoria e ha dovuto emigrare -.
Sceglie questa curiosa presentazione, Alberto, mescolando il misurabile e l’immisurabile, i soldi e le origini. E’ un uomo che va per gli ottanta. Ossuto e longilineo; chiaro di pelle, occhio azzurro, capello bianco. Non sembra emozionato, non sembra particolarmente interessato, sembra pratico, uno di quei tipi con macchina e garage sempre in ordine.
Racconta in modo logico, con argomenti in sequenza legati dai “dopodiché”, dai “siccome”, dai “pertanto”. Usa spesso l’avverbio “lì”, puntando con l’indice teso: è uno che focalizza e raggiunge gli obiettivi, penso. Ogni volta che termina un discorso, tace in attesa che io gli chieda “qualcosa di importante”, come dice spesso, perché è convinto che io abbia una scaletta: “qual è la prossima domanda?”, ma io sono un indisciplinato della conversazione, un anarchico della chiacchierata, e i non verbali sostituiscono la mia scarsa pianificazione. Così aspettiamo. Aspettiamo. Aspettiamo. Poi io gli sorrido e lui mi sorride. Io allungo il collo come per dire “proceda pure” e lui allunga il collo come per dire “mi faccia una domanda”. Aspettiamo, sorridiamo e allunghiamo il collo e infine ci riconsegniamo ad un passato comune a così tanti vicentini e bergamaschi di quegli anni: un padre che emigra e va a lavorare in un’acciaieria valdostana, un appartamento in un paese a qualche chilometro dalla fabbrica e una bicicletta: - Veniva a lavorare in bicicletta - e aggiunge - come ho fatto io tutta la vita - poi mi srotola l’indice del suo percorso lavorativo e mi fa sussultare il subcosciente: - Ho frequentato la scuola di fabbrica. Finita la scuola sono andato a fare il manutentore in laminazione[…]. Dopodiché, visto che la carriera era un po’… insomma… mi sono iscritto alla scuola serale e mi sono diplomato geometra; tutto scuola Cogne, veniva fatto tutto lì; per me è ovvio, ma adesso non c’è più niente. Poi sono rimasto ancora un paio di anni in reparto. Dopodiché mi è stata offerta la possibilità di venire a lavorare… allora si chiamava CPII, centro prevenzione infortuni e igiene […]. Lì, all’inizio, […], si dava attuazione al D.P.R. 547, con controllo degli impianti; però l’aspetto umano, il fattore umano, non era molto… – è una cometa di Halley che passa a cinque minuti dall’inizio dell’intervista, rischiara e suggerisce che la tecnica non basti – e siccome al fattore umano si addebitava l’80% degli infortuni, […] pertanto, a quel punto, la nuova dirigenza, che arrivava forse dall’Italsider, ha portato ad Aosta quello che c’era già negli altri stabilimenti - una ricetta con pochi ingredienti, ma impegnativa: scendere giù, nel fare, aderire all’umanità siderurgica - sono diventato un addetto di zona - con altri addetti nei vari reparti - […] e pertanto abbiamo cominciato ad agire sul fattore umano e appunto, lì, riunioni, corsi della sicurezza… cioè, siccome prima non era mai stato contattato il lavoratore, abbiamo cominciato a lavorare con riunioni e cose di questo genere -. Mi guarda fisso, con gli occhi chiari. Penso intuisca il mio interesse, ma lo sento teso sulle spalle e frettoloso di arrivare ad una qualche conclusione e mi dice - la faccio breve per arrivare alla fine -; la faccio breve anch’io e sintetizzo la sua chiusa così: colpo di dadi vertici aziendali e Alberto diventa responsabile della sicurezza dell’intero stabilimento. Poi si distende sulla sedia - io sono arrivato alla sicurezza nel ‘67 e ho cambiato mansione nell’ 87. […] Ho fatto vent’anni alla sicurezza! -. Percepisco i suoi battiti tornare regolari. - Ora possiamo ricominciare, qual è la prossima domanda? Lei avrà i suoi temi importanti? Cosa vuole analizzare? –. Mi propone una revisione. Io gli chiedo una visione perché ho sentito qualcosa che forse non insegna, ma di certo evoca, la bicicletta. - Mi piaceva venire a lavorare in bicicletta, perché poi, […] era anche un po’…una sfida; anche col brutto tempo, con la neve, con la pioggia… Era diventata un po’ una sfida. Sempre. Sempre. E poi è diventata anche una tradizione –. Il piacere che supera l’utilità e il desiderio di fare come i propri padri, più di loro: – Anche mio padre ce l’aveva, perché allora poi, ai tempi di mio padre, c’erano solo biciclette… migliaia e migliaia - sorride e aspetta che io mi riempia gli occhi di quella grandezza. - C’era anche un meccanico veneto che aggiustava tutte le biciclette dei dipendenti – Bepi, detto “zonta” [giunta], per l’attitudine al taccone, e lo immagino, chiaro come il vino bianco cui si è votato con metodo e passione, commentare l’incuria delle biciclette con sequele di “cancaro” e “varemengo ti ta morti”. - Poi, pian piano, il discorso […] si è ridotto. Ecco io, lì, ero uno dei pochi… forse alla fine eravamo… non vorrei esagerare, ma… una ventina, trentina che avevamo la bicicletta. Poi c’era anche un altro aspetto - parla a bassa voce, o forse sono io distante ad immaginare personaggi mai esistiti, e sento mormorare la parola “morto” - alla fine noi avevamo messo dei divieti di entrare con le macchine perché avevamo avuto un morto - e, non so perché, ripete più forte: - avevamo avuto un infortunio mortale! -. Investito. – E siccome ero io il responsabile di stabilimento, lì, ho vietato, o perlomeno ho cercato di limitare, l’accesso con le vetture. Pertanto io ero il primo a dire… con l’esempio… io avrei potuto, ma ho detto “no, sto fuori, così do anche l’esempio per la gente”, perché dire e non fare non si viene ascoltati molto. Ecco, le biciclette… era un po’ quello il discorso –. Già, era un discorso sulle biciclette, tutto odoroso di simbolico, che abbiamo seguito come una pista segreta verso un luogo nascosto, e abbiamo parlato di utilità piacere sfide tradizioni legami cambiamenti morte responsabilità autorevolezza e che ora si chiude con un’ allegoria: - per concludere il fatto romantico, il mio ultimo giorno di lavoro… la bicicletta si è fermata, si è spaccata – e lo portano a casa – l’ho voluta lasciare lì –. Raccontano che nelle notti più profonde si senta, a volte, il pedalare allegro di una bicicletta in fuga da un meccanico veneto, tutto dedito al lavoro, alle imprecazioni ed alle “ombre de vìn”.