Capitolo 3 – Mestieri e morti
Alberto passa sette anni in reparto, poi - parliamoci chiaramente, lì, carriera era un po’ difficile perché eravamo tutti giovani. Anche le condizioni non erano delle migliori, riscaldamenti non ce n’erano, pertanto-freddo-terribile-d’inverno. L’ambiente… eravamo sempre sporchi - pertanto mani nere e gialle da meccanico, tute sdrucite, scarponi con i lacci di corda - ho detto: “Devo fare qualcosa” e sono andato alle serali. – Studia di notte, come gli eroi dei fumetti, si diploma, resta ancora un paio di anni in manutenzione e gli propongono di entrare in un nuovo servizio che si occupa di sicurezza. – Dal reparto a un ufficio cambia completamente, per me è stato un shock. – La motivazione, confesso, mi coglie impreparato – primo perché ero abituato a mangiare il panino al mattino e in ufficio tirare fuori il panino mi sembrava un po’ di… Poi eravamo parecchie persone, che uno non conosce… Però alla fine l’ambiente si è rivelato abbastanza buono. - C’era una misteriosa signora, con un compito lugubre – quando sono arrivato, ogni giorno c’era un infortunio e, mi ricordo, c’era una signora che metteva i bollini. Ogni giorno quattro o cinque infortuni e ogni giorno, zac zac, quattro o cinque bollini.
Siamo in argomento e parte uno scambio crudo, chiedo: - C’erano così tanti infortuni? - Sì - C’erano tanti infortuni gravi? – Sì – C’erano tanti infortuni mortali? – Sì. Molti. Purtroppo. – Lo vedo sofferente – direi che siamo passati da… c’era almeno un infortunio mortale all’anno… Dopo, piano piano… […] Eh, ne ho visti parecchi, non è una bella cosa, anche perché poi uno si chiede: “Ma ho fatto il possibile? Ho fatto TUTTO il possibile? Ho visto che c’era quel rischio?” anche dal lato morale era un aspetto… non secondario. - China la testa, si tiene il mento tra le mani, ha un’espressione piena di umanità. Mi nascondo nel prendere appunti, forse per pudore, forse per paura. Lui parla a bassa voce di una forza infinitamente grande, un boato che mangia tutto l’umano, morte, e la sua sintassi e la sua razionalità si riempiono di crepe – le acciaierie… l’altoforno… erano ambienti… quel calore… - il calore, è il dio tutelare dell’acciaieria, supera le leggi della fisica: crea, cambia, distrugge; distrugge, cambia, crea. Ora distrugge - un forno… c’era stata una vampata… poi c’è stato un processo… perché [nome] è morto per le ustioni… ustionato su tutto il corpo. Poi [nome] è caduto giù dai piani di scorrimento della gru. Sembrava in stato di ebbrezza, però non si poteva dire perché non c’erano le prove. Poi [nome] e lì non sappiamo se era suicidio o… c’era una grande berta… e lui è rimasto schiacciato[…] c’è finito sotto con la testa, schiacciato lì. - Mi racconta di morti ai magli e alle presse - la fila è lunga - di morti in laminazione: il primo cade in una via a rulli - a vederlo non aveva niente, lesioni interne - il secondo viene trafitto - allora si pigliava la vergella con le pinze e si infilava… - dovrei stare zitto, ma è vecchio mestiere siderurgico, rizzo le orecchie come il cane chiamato dal padrone e dico – serpentatori – Alberto spalanca gli occhi e mi risponde – sì, serpentatori - prosegue col viso buio - han fatto dei lavori e uno dice “tutto a posto” poi, all’ultimo momento, questo guarda se la cassetta era registrata bene… e l’altro infila… – abbassa la voce che fatico a sentirlo – e l’ha bucato. – Alcuni raccontavano una brutta storia dietro a questo incidente, ma erano voci e, questa volta, non dico niente e seguo Alberto nella Via Crucis di episodi e nomi che non può togliersi dalla testa, e sto lì ad ascoltarlo e mi sembra che diventi sempre più grigio, livido, scosso in tutto il suo essere. Mi fissa immobile e si sforza di rivolgermi un sorriso senza gioia, conclude: - Ce ne sono stati parecchi di questi episodi, cose che lasciano sempre un segno profondo.- Mi dice che potrebbe andare avanti elencando, ma non vuole e restiamo in silenzio e torniamo a non guardarci.
Se penso all’intervista a Zane mi vengono in mente tre cose. Prima, mi stritolò la mano presentandosi e aggiungendo - fucinatore. Seconda, divideva i lavoratori in due categorie: chi usava il regolo e chi no, e di questi ultimi specificava - grezzi, grezzi, grezzi. Terza, durante i suoi racconti mi diceva - lei immagini - oppure mi chiedeva - lei ricorda? - poi descriveva in modo che non serviva immaginare, vedevo, e non serviva ricordare, vedevo, e facevo grandi sorsate di storia: - Quando sono entrato io, l’America ci stava aiutando nella rinascita, c’era una “liaison” tra di noi che chiamavano Piano Marshall. Quando sono entrato io, nella prima campata avevamo uno, due… cinque magli da 1500 kg e alcuni più piccoli da 700. Chi lavorava ai magli piccoli aveva l’abilità del fabbro. Nella seconda campata avevamo i magli da 3000 kg per gli acciai rapidi. Nella terza avevamo le presse e la Grande Berta. - Passeggiavamo nei capannoni enormi, con la polvere che brucia gli occhi, i colpi assordanti, i bagliori che prolungano le ombre a dismisura e sembrava di essere nella fucina di Vulcano. Incontravamo i lavoratori che battevano “la calda”, appiccicati, con lo sguardo fisso sul pezzo - la squadra era composta dal primo martellatore, con al fianco il secondo e dietro potevano essere due o tre aiutanti. - Incontravamo i giovani e i vecchi - c’era un veneto, allievo batti berta, che quando arrivavano i ragazzi dalla scuola di fabbrica faceva: “Ti, ti xeri bravo a scòla? Vièn co mì” e gli dava un badile. - C’erano i Bosonetto - erano vecchi contromaestri ed erano maghi del mestiere, giravano con le tasche piene di pece greca che buttavano sui pezzi in lavorazione per non farli attaccare: erano trucchi. - C’erano Pieropan e Sacchet - miei martellatori alla Berta, facevano battere sta macchina come si doveva. Sacchet comandava con la voce: “Euh!” e batteva e come si aprivano le mazze buttava della segatura bagnata, che era efficacissimo per staccare la scaglia. Era un vero martellatore e mi ricordo, una volta, sono dovuto andare a chiamarlo perché avevano telefonato che era successo qualcosa di brutto al suo paese di origine. - Longarone.
La mia entrata in fabbrica è stata dura… ero magrolino, giovanissimo. Alla scuola avevo sempre lavorato al tornio, mi piaceva moltissimo e infatti ero il migliore della scuola. Il mio insegnate era contentissimo di me, mi dava tutti i pezzi più difficili e io ero orgogliosissimo. Avevo delle speranze, pensavo: “Adesso mi chiamano in torneria” e invece… ai laminatoi vecchi. Tra l’altro, la settimana prima, era morto uno nel treno dove mi avevano messo. Allora si infilava ancora a mano, si pigliava il filo al volo, si girava su se stessi, a U, e si rinfilava… e questo è rimasto infilzato. Pensi un po’ con che animo sono entrato io: paura! Dalla scuola… Le dico solo che in reparto avevano il cappello da alpino. Poi però è intervenuta la sicurezza ed è notevolmente migliorato.
[Testi estratti dall’intervista a M. Rizzo, registrata il 03 giugno 2012 da L. Valmachino. Fucina, maglio da 3000kg per acciai rapidi e Laminatoio, treno a filo - Regione Autonoma Valle d’Aosta - Archivio Storico Regionale - Fondo Nazionale Cogne - Archivio Fotografico]