Capitolo 5 - Sociabilità pesante
Alberto tamburella con una mano sul tavolo, un po’ nervoso, un po’ annoiato e mi sbircia con la coda dell’occhio. Sembriamo due pescatori, silenziosi, in attesa che qualcosa abbocchi e, nel mentre, ci facciamo un paio di risate riparlando della febbre che gli saliva dopo le riunioni con gli operai e di quella che definisco “nevralgia da formazione estrema con acciaieri incazzosi” - scusi, Alberto, se ho detto incazzosi -. Ridiamo ancora, ma il nostroridere sembra inadeguato perché, di fatto, è dall’inizio dell’intervista che abbiamo la parola “morte” piantata nelle storie, come un herpes sulla bocca. Forse è nel seguire questa oscura linea del nostroincontro, forse perché la vita è dura e ostile e ha bisogno di cure, forse perché semplicemente l’argomento mi interessa, gli chiedo di una piuttosto diffusa attività taumaturgica nella fabbrica di una volta: - L’alcol era un probl… - la sua voce diventa un coltello che taglia la mia - sì, l’alcol era un problema - ha gli occhi di nuovo lucidi, si passa una mano sul volto come per tirarsi via un pensiero - infatti, quello che è caduto dalla gru aveva i bottiglioni - sussulto segretamente perché queste due parole accostate, gru e bottiglioni, ora, mi ricordano qualcosa che dovrò stanare in altri taccuini, più vecchi, se troverò, leggerete nel trafiletto. – Un altro, lo hanno ricoverato perché si era scolato una bottiglia di grappa e lo hanno fatto uscire senza dire niente, perché altrimenti rischiava grosso. Un altro, mi ricordo, lo chiudevano in un armadio, così non si faceva male e non faceva male agli altri. – Collaborare nelle difficoltà, come coprire il collega sbronzo, una strizzata d’occhio, una mano tesa con un bicchiere d’acqua, bevi è fresca, no grazie, prendi una sigaretta, quella sì, sono comportamenti che vengono da tempi lontani. Siamo a un livello della catena alimentare con pochi bonus e molti rapporti. Alberto mi racconta che, nelle riunioni, i capiturno gli chiedevano come gestire lavoratori ubriachi: - “quando vedete che una persona è così, dite che è in uno stato particolare”. - Sorrido aspro per quella definizione, “particolare”, nella quale lo riconosco, un po’ sincero, un po’ burocratico. - “Che cosa aveva? Era particolare: barcollava, non stava bene, e lo mandate via, perché… così, anche sindacalmente, siete tranquilli e dite: l’ho mandato a casa perché lo vedevo… particolare”.
Alberto guarda in terra, pensa, ricorda. Capisco che sta seguendo mentalmente il filo del discorso e aspetto. Fissa gli occhi nei miei e mi racconta una storia che, saranno le sue mani giunte con le dita intrecciate, mi sembra una confessione: faceva tappe per la fabbrica - un furgoncino che distribuiva panini e vino. - Oh, pioniere metalmeccanico dello street food! Come chi è troppo avanti nei tempi, ti hanno bandito credendoti Male. Lo eri? Non lo eri? C’erano ragioni? Ahimè, eccole: - Era un problema… c’erano gli habitué che li trovavi da tutte le parti, lo seguivano - pedinatori del pane e salame, stalker della barbera - pigliavano un goccino qua, uno là e avanti… - chi ha cuore di condannarli? Fosse Ratio, ma quando è il sentimento a guidarti finisci come noi, in quest’intervista, a girovagare disordinatamente, peccatori metodologici a spasso tra le storie, cacciatori raccoglitori convinti che qualcosa là dietro ci stia aspettando.
Alberto ripaga la mia fiducia tornando sul “fattore umano”, nel suo senso del termine, non sociologico, non organizzativo, non utilitaristico, semplicemente umano. Mi parla del fare gruppo tra gli operai e si confessa per la seconda volta: – quando sono passato da manutentore a impiegato ero un po’ in crisi, mi sentivo un po’ … mentre là [in manutenzione] mi sentivo dentro – dentro, non poteva usare espressione più appropriata. – Ero in un ambiente in cui facevamo insieme. Si prendevano le decisioni insieme. Provavamo insieme – certo, è il fare che si sperimenta, soggetti, progetti e circostanze. Mi rivolge un sorriso che sembra accarezzare un sogno lontano e scivola nel tu: - la collaborazione, Lorenzo, più si era in basso, più c’era. Quando cominciavi a salire di livello […] un pochino scemava, ma a livello basso, io mi ricordo, giù dove lavoravo io, era buona. Uno era tranquillo con le persone che gli lavoravano intorno. […] Io, in manutenzione, l’ho vissuta così, non mi sentivo un estraneo o un qualcuno da… ecco, da dover stare attento. - È un bel frammento di difesa personale dall’invasione delle competenze trasversali e da quell’urologo col ditone che gironzolava per gli uffici. Ed è una buona chiusa per l’intervista, lo testimonia che entrambi abbiamo un lato della bocca piegato verso l’alto in un ghigno un po’ sinistro. Gli chiedo: – va bene, Alberto, se finiamo così? – lui non mi risponde, ma il suo ghigno diventa più duro e mi fa presagire che la mortalità, in questa giornata, dovrà scassinare anche la nostra conclusione: – Gli episodi sulla sicurezza sono purtroppo legati a fatti gravi. Fatti che a me toccavano. Sentirmi responsabile di un incidente gravissimo era una cosa che mi faceva stare male. […] Pertanto, ho fatto di tutto per… chiaramente, fare tutto è impossibile, c’è sempre da fare di più. […] L’importante era evitare… dal punto di vista umano… perché poi magari uno ha famiglia, o anche se non ha famiglia… - la sua voce si abbassa, sprofonda, si rompe, riemerge, si stanca, diventa indecifrabile, soffre e si perde in ricordi e ragionamenti di cui mi fa sentire solo la conclusione, annoda ancora il misurabile e l’immisurabile, e spera: – Quello non lo abbiamo mai saputo… – Cosa, Alberto?
– Quanti ne abbiamo evitati.
– Di cosa, Alberto?
– Di infortuni, Lorenzo, purtroppo sappiamo solo che si sono ridotti, ma quanti infortuni abbiamo evitato, col nostro lavoro, non lo sapremo mai.
È stato un piacere averti incontrato, hidalgo siderurgico
– Le racconterò cose che non esistono più. Cose successe sessant’anni fa e oltre. – Cominciava con questa promessa l’intervista all’ingegnere C.M., che lascerò anonimo, perché i temi che rincorro compaiono come brevi testimoni oculari nella storia di questo piemontese nato nel 1925, asciutto e curvo, con gli occhialoni spessi e la voce roca, istruito e di buona famiglia, che ha fatto carriera come dirigente alla SIAS di Milano (Società Italiana Acciai Speciali) e che mi accoglie nel salotto di casa stappando una bottiglia di vecchio cognac. Sulla registrazione audio scorre la sua vita lavorativa: professore di tecnologia, progettista alla Savigliano, infine, nel dopoguerra, la siderurgia. Sul taccuino leggo che faccio lunghe sorsate di cognac, a intervalli regolari, mentre sfilano storie legate alle sigle di allora: Falk, Dalmine, Breda, Ferriere Fiat, Italsider. Ero facile ai sentimentalismi industriali? Non credo, annotavo questo: “Immagino bagliori d’altoforno e forge nella Pianura Padana e le campagne, i fiumi, le persone avvelenate”. Altre annotazioni sparse. “Piovosa serata autunnale. Rumori stradali e luci di condomini attraversano le finestre.
Il salotto è buio e devo abituare la vista all’oscurità”. “La moglie è una signora gentile, che ogni tanto compare e controlla il livello della bottiglia. Lancia occhiatacce al marito, a me no.” “Al minuto 48 bel racconto sugli operai che scaldavano la schiscetta sopra le billette, sono molesto e faccio domande tendenziose.” Sulla registrazione mi sento, con voce impastata e una ESSE che mi tradisce, chiedere : - Non avevate la menSCIa?- Risposta: - C’era, in quei tempi, un automezzo attrezzato.- Seguono le domande tendenziose.
- Vendeva anche alcolici?
- Vendeva […] anche del vino.
- L’alcol era un problema?
- Vendeva… un bicchierino di vino, però avevamo scoperto che c’era della gente che, siccome questo automezzo aveva delle stazioni di fermata, c’era qualcuno che lo si trovava alle varie stazioni. Quindi beveva il bicchierino qui, poi lo trovavi a bere il bicchierino là, poi lo trovavi a bere il bicchierino dall’altra parte. […] Il personale era tenuto d’occhio fino a un certo punto, quindi c’erano delle persone che godevano di questa libertà e l’alcol era un problema.
- Ricorda incidenti, infortuni, legati all’alcol?
- Io sono convinto che parecchi infortuni erano dovuti all’abuso di alcol. […] Ci preoccupava molto l’alcol bevuto dai gruisti, eh… se lo portavano da casa. Una volta, uno, lo abbiamo trovato con i bottiglioni. […] Abbiamo avuto dei morti.
Cosa sia successo, a quel punto del taccuino non ricordo, posso supporre: la penombra della stanza, il cognac abbondante, il chiodo fisso, che avevo, come oggi, di scrivere un noir in acciaieria, l’insieme, forse, favorì una migrazione psichica che mi portò lontano: “Ispeziono con gli occhi stretti il reparto polveroso e scuro del turno notturno. Sento l’aria calda, ma qualcosa di gelido che mi scende per la schiena. Sento la pelle calda e la bocca secca. Vorrei sputare, ma non riesco. Mi passa accanto un uomo e avverto un forte odore di vino.
Ha la faccia paonazza, gli occhi gialli di bile, venati, opachi, preoccupati. Forse per questo ha bevuto, perché quando bevi sembra che vada tutto bene. È molto magro. Indossa i pantaloni verdi della tuta da lavoro e una camicia di jeans o forse il contrario, gli sta tutto largo. Si ferma un istante, poi comincia a salire verso il carroponte. Suda, ha i brividi, lo vedo traballare e qualcosa mi stringe la gola, come in certi incubi, perché so che, questa notte, un uomo già condannato cadrà, annaspando con le mani, senza gridare, con gli occhi sbarrati, e si sfonderà il torace e riverserà a terra quasi tutto il suo sangue, un sangue nero e spesso, e tutti ricorderanno il colore del sangue e il rumore di quel corpo caduto, è stata la cosa più brutta, diranno, quel rumore.”
È come se il taccuino aumentasse smisuratamente di peso e una vocina mi dicesse “oh, basta carotare!” Non troverò altro ed è ora che l’utile ceda il posto al piacevole: “Un sorso di cognac, un cucchiaio di sciroppo alle pere, un pezzetto di cioccolato amaro, un altro sorso, una fetta di salame, ultimo sorso. Siamo alla firma di consenso per l’intervista. Mi svolazza nella mente la differenza tra gastronomia e alimentazione e penso al Pavese de “La luna e i falò”. Conosci le ragioni? No, intanto prendo nota. Arriva la moglie, perché lui ormai vede poco. Gli dà un secondo paio di occhiali e gli prepara un appoggio colorato, per vedere meglio il foglio. Sposta piatti e bottiglia, e dice con un filo di voce: - hai quasi novant’anni - a me invece fa un ampio sorriso e mi scappa una specie di muggito. Saluto C.M. in salotto. La moglie mi accompagna alla porta e mi porge la mano delicata e trasparente che sembra una farfalla. È una signora davvero gentile, mi augura – tante belle cose”.
[Camionetta vivande - Regione Autonoma Valle d’Aosta - Archivio Storico Regionale - Fondo Nazionale Cogne – Archivio Fotografico]