Inossidabili

Racconti di uomini e luoghi in un’acciaieria del nord Italia, a cura di Lorenzo Valmachino (Capitolo 2)

  • Marzo 12, 2018
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  • La pianta della sottostazione. In alto a destra, ancora ben visibile, la firma “Trevisan” da cui tutto ebbe inizio...
    La pianta della sottostazione. In alto a destra, ancora ben visibile, la firma “Trevisan” da cui tutto ebbe inizio...

Introduzione

Lo scorso mese abbiamo inaugurato questa nuova rubrica, nata con l’obiettivo di diffondere e preservare uno spaccato di storia della manu­tenzione in Italia. Molti tra i nostri lettori, siamo certi, troveranno non pochi tratti comuni alla propria vicenda professionale e, probabilmente, umana. Nel primo capitolo l’autore Lorenzo Val­machino, Formatore, ASPP dell’Area a Caldo, Manutenzione e Qualità di Cogne Acciai Specia­li, ha raccontato come, durante una “normale” ricerca di vecchi disegni di una vecchia linea elettrica a 70KV, presso gli uffici della Cabina Collettrice, sia rimasto incuriosito da una firma - “Trevisan” - ricorrente in tutti i documenti collegati a quei disegni. Così decise che doveva saperne di più su chi ci fosse dietro quel tratto di penna. L’8 agosto 2014 il tanto atteso incon­tro con Gianfranco Trevisan, classe 1940. In 85 minuti di intervista Trevisan condensa decenni di storia e lotte... di chi si è fatto strada alla vec­chia maniera.

 

Alessandro Ariu

Capitolo 2 – Squadra zero

Comincia così - mio padre aveva lavorato alla Co­gne per vent’anni […] - poi ho l’impressione che succeda qualcosa di brutto, ma non approfondisco - e mia madre è andata dal capo del personale per chiedere se potevano assumermi, visto che mio pa­dre aveva fatto tanti anni -. Gli viene offerto un po­sto in miniera e lui accetta - perché ero capofami­glia […] e quindi qualsiasi lavoro mi andava bene… a quell’età ti senti… - me lo dice con foga, stringendo i pugni. Il medico di fabbrica però lo trova troppo magro - “io non la mando in miniera: lei non ha il fisico per sopportare di fare il minatore” – non poteva immaginare quanta forza ci fosse in quel ragazzo esile.

È il 1959 e Trevisan viene assunto in una centrale idroelettrica della So­cietà Anonima Cogne, nella cosiddetta “squadra zero”. - Per me quel posto doveva essere transitorio […]. Quel reparto si chiamava “squadra zero”, questo per dare un’idea del valore che davano a quella squadra, perché erano tutti invalidi […]. Questa gente erano lì… poverini, dico, per­ché con la loro disabilità, con la loro… non potevano fare granché… e un po’ qualcuno se la tirava anche, tant’è vero che io avevo dei conflitti con loro, perché, diciamo… - tace, si guarda intorno, chiude gli occhi, poi si costringe a dirlo - il terzo giorno mi avevano messo a fare uno scavo, che era sulla sabbia; eravamo in quattro, io ero l’unico che lavorava, ma dovendo persino litigare con gli altri perché dicevano “no, non puoi fare… devi andare più piano!”, io dicevo “ma vedete quelle finestre? Lì c’è la direzione!”; allora c’era il direttore degli impianti elettrici, dico “se vedono che sono un lavativo, lo sanno che non sono un invalido, mi spediscono non alla Cogne [lo stabilimento centrale di Aosta], mi spediscono da un’altra parte!”. Dovevo litigare per lavorare, robe… una cosa incredibile.”

Trevisan si autodisciplina perché si prospetta obiettivi futuri e vuole di­mostrare il suo valore. Questi saranno tratti permanenti nel racconto e nell’etica di questo ragazzino magro e biondo, che lavora duro, con gli oc­chi seri e decisi, cui sorrido per la prima volta mentre lo immagino lottare, resistere e crescere. Dalla “squadra zero” diventa l’autista del direttore della centrale - ero sveglio anche a lavare i vetri, a sgrassarli - sorrido ancora. Lo fanno anche postino - e pure lì dovevo litigare con quello che era il titolare della posta, perché lui partiva alle 9 e tornava dopo mez­zogiorno; io partivo alle 9 e alle 10 ero di ritorno: non ci voleva tanto - . Poi la speranza si concretizza in modo inatteso e violento: Trevisan viene spostato ad Aosta, però passa dai Servizi Elettrici alla “Produzione”, cosa che lo segnerà profondamente, e soprattutto finisce in un reparto che già non promette bene, “teleferica sotterranea”, ma il cui soprannome non lascia scampo: “la galera”. - Ho fatto tre mesi nella teleferica sotterra­nea, che allora veniva chiamata “la galera della Cogne”... Le assicuro che era veramente la galera… era un posto… non so come dire: una galera… – vuole che io lo veda passare da una centrale dei primi del Novecento, immersa in un verde da sfidare l’Irlanda, per svanire nel buio di un re­parto sotterraneo e aspetta una mia reazione. Io non so se vedo bene e gli dico la parola più spaventosa che mi venga in mente - un pozzo - lui si sistema sulla sedia e sussurra - la galera - poi aggiunge - mettevano anche tutti i soggetti più […], le teste calde finivano tutte lì. Io c’ero finito casualmente - e me ne spiega il funzionamento: il materiale della miniera andava nei mulini - brrruuummm… sentivi macinare la magnetite a cen­tinaia di metri - poi facevano i mattoni che, dopo la cottura, andavano in teleferica per essere caricati nei silos dell’altoforno - e io caricavo le benne con questi mattoni. Pensi che… era una vita infame, avevamo 15 minuti per mangiare, ma 15 non 16, e 15 minuti per lavarsi, perché uscivi nero come il carbone -. È il pozzo delle vite vissute male - ricordo, una volta, un poveraccio è rimasto agganciato alla benna […], era uno fuori di testa, cantava da gallo, tanto per dare un’idea […]. Eravamo io e lui, da soli […], è rimasto agganciato, era anche ubriaco, io che lo rincorrevo… c’erano 100 metri in piano, poi c’era un’altra ruota che faceva salire ai silos dell’altoforno. Lasciarlo andar su, quando arriva all’altra cosa… lo sbrana, lo strappa tutto. Ho passato due minuti… ma proprio il terrore; finché ho pensato di aprirgli la giacca e farlo uscire e lasciare la giacca lì.

Lui neanche si era reso conto che poteva restare sfracellato. Cantava da gallo. Era ubriaco. Una galera… - . La teleferica sotterranea è un rapito­re spietato, ma non si impadronisce di Trevisan - comunque, anche lì, sono riuscito - buon senso e nervi saldi - mi hanno assunto agli impianti elettrici della Cogne - e, questa volta, non in una centrale di mezza mon­tagna, ma - in Cabina Collettrice, come addetto alle apparecchiature -. Un racconto buio ci porta alla luce - un paradiso; era come andare dalla galera al paradiso, dove c’è ordine, pulizia eccetera.

Ambienti puliti, dicia­mo anche… personale più… io ritengo più… meno… meno – si ferma, rotea gli occhi, il paragone è con la “produzione” e cerca qualcosa che non sia offensivo – meno cavilloso – però non è quello che avrebbe voluto dire. - Le centrali erano nelle valli laterali. Nelle valli c’è più il senso del villag­gio - bella parola “villaggio”: risveglia i giochi dei bambini e il lavoro nei campi, la durezza della legna e il succo delle mele, l’asciutto dei fienili e l’umido delle cantine, il silenzio dei boschi e i colpi del fabbro. Trevisan la usa per mettermi di fronte ad un’altra dialettica che però non trova sintesi e che rappresenta un tema centrale nel suo racconto: l’importanza della socializzazione nel lavoro e la velata antipatia verso i “siderurgici”, come li chiama sempre. È un cambiamento che condizionerà il resto della sua vita, all’interno di un luogo che già nel nome evoca la dimensione e la funzione del legame: Collettrice - un ambiente… speciale. Lì è cominciata la mia bella carriera - e lì il tono del racconto cambia notevolmente, sem­pre in crescendo, con l’assunzione che sembra una rinascita, gli eventi che prendono una logica ed io che so di essere qui per questo. – Sono stato assunto ad aprile, in Cabina Collettrice, e a settembre, quando ha aperto, mi sono iscritto alla scuola di fabbrica – che sarà, per generazioni di ragazzi, terra fertile di competenze lavorative, immaginazione e riti di passaggio.

Sul taccuino annoto che, parlandomi, cambia posizione del corpo, si distende, si rilassa, non vedo più la lotta per la sopravvivenza, ma l’im­pegno di un ragazzo sognante alla conquista dell’abilità tecnica. - Le assicuro che era dura, perché, innanzitutto, la scuola ti preparava mol­to bene, la scuola Cogne aveva una buona fama, […]aveva dei tecnici ingambissima; però doveva pensare che per noi…, per 5 anni, dalle 5 del po­meriggio alle 10 di sera, dopo aver lavorato 8 ore… […] Insomma, per noi erano 5 anni… e, a quei tempi, io ho dovuto farne 7, di anni, perché per fare il perito elettrotecnico allora occorreva la licenza tecnica, che era un biennio. […] Co­munque me la sono cavata… con la promozio­ne a luglio. Più che l’intelligenza, dico io, era la voglia di arrivare, di fare. Vedevo davanti a me delle prospettive nell’ambito degli impianti elet­trici, che erano la perla della Cogne -.

È un frammento di modernità, nel senso sociologi­co del termine, con la motivazione individuale sup­portata da un’organizzazione stabile che struttura conoscenze approfondite in un luogo, la scuola, dove s’incrocia il sapere tecnico e lo spirito di co­munità (e non a caso, Trevisan, ne parla usando il pronome “noi”), e unisce radici profonde ad un futuro perlaceo.

 

... Continua sul numero di aprile di Manutenzione T&M