È un dato di fatto che il nostro costruito invecchia senza le adeguate attenzioni per fronteggiare le nuove sollecitazioni che derivano dai cambiamenti culturali e climatici. Non occorre la sfera di cristallo né competenze da cartomante per “predire” il futuro di una struttura abbandonata a degrado e obsolescenza. Oltre al buon senso siamo ormai dotati di metodologie e strumenti in grado di fornire dati per analisi puntuali e mirate per gestire l’“asset integrity”, e che per vari motivi non vengono sfruttate.
Gli ostacoli fra burocrazia e abitudini
I cambiamenti climatici hanno modificato natura e struttura degli eventi atmosferici: non parliamo più di piogge ma passiamo direttamente alle “alluvioni”, non parliamo più di temporali ma di “bombe d’acqua” e non parliamo più di vento ma subito di “trombe d’aria”. E si devono aggiungere le sollecitazioni derivanti dal maggiore e diverso uso cui le infrastrutture vengono sottoposte, legato a cambi culturali e tecnologici, senza quegli adeguati interventi che le rendano in grado di assecondare i cambiamenti.
Anche se siamo ormai portati ad avere una “previsione stagionale” delle tragedie cui puntualmente assistiamo, chi dovrebbe prendersi cura del patrimonio costruito, bloccato fra burocrazia, carenza di fondi e di competenze, si trova in difficoltà a utilizzare una metodologia corretta d’intervento per garantire integrità e uso in sicurezza di tali strutture.
Una prima considerazione va al panorama normativo e quanto sia instabile e a tratti lacunosa la disciplina di tale settore. Negli ultimi due anni si è assistito ad un notevole processo di riforma che ha messo in primo piano il comparto delle opere pubbliche. L’obiettivo principale del legislatore era ridefinire ambiti e regole tenendo conto del principio di trasparenza, e la frequenza con cui il legislatore è intervenuto con modiche, è sintomo di una forte instabilità normativa che porta a sfiducia e incertezza verso le amministrazioni pubbliche e private. Il problema infrastrutture in Italia si evidenzia sotto due aspetti: gli investimenti per quelle da costruire e, più esteso, la manutenzione per quelle costruite.
Circa le opere già costruite, secondo l’International transport forum dell’OCSE, l’Italia si colloca in seconda posizione, dietro alla Norvegia, come Paese che per gli investimenti in manutenzione spende di più. Tuttavia i fatti e lo stato in cui versa il nostro patrimonio costruito dimostrano tutt’altro: non si spiega come sia possibile che “…negli ultimi 20 anni a fronte dei 170 miliardi di euro per le nuove opere, per quelle già costruite si è investito meno del 10% di tale cifra, con una conseguente spesa di circa un miliardo di euro all’anno solo per i danni provocati da disastri naturali”.
Tale malagestione economica ha come ricaduta la contrazione verso le risorse per controllare e monitorare lo stato conservativo e il fabbisogno manutentivo del parco infrastrutture esistente.
È in questo quadro che si inserisce la tragedia del ponte di Genova, opera che fin dal suo collaudo ed entrata in esercizio è stata oggetto di inchieste e polemiche, e che proprio per questo doveva essere sottoposta a verifiche e a manutenzione ordinaria e straordinaria continue, e il recente incendio della Cavallerizza di Torino, edificio tutelato dall’Unesco, privo da tempo degli adeguamenti impiantistici di legge e abusivamente occupato; in entrambi i casi… “cronaca di una tragedia annunciata”.
Prevenire è meglio che intervenire…
Un’infrastruttura è una Grande Opera d’Ingegneria, complessa, caratterizzata da un ciclo vita temporale molto esteso.
Nella realizzazione di queste opere, stakeholders, operatori e addetti ai lavori si avvicendano, ciascuno per proprio conto e con ruoli ben precisi, per i comuni obiettivi di: creare l’infrastruttura, tenere i costi all’interno della previsione di spesa, e consegnarla secondo le scadenze previste; meno pianificato talvolta il futuro processo di gestione lungo tutto il ciclo di vita dell’asset, , attraverso una manutenzione corretta e sostenibile che garantisca costante affidabilità, e che rappresenta l’incidenza economica maggiore.
Nella storia di insuccessi che attraversa gran parte delle opere, ricorre un comune denominatore di quasi totale mancanza di un meccanismo centrale di valutazione, già in fase progettuale e di gara d’appalto, dei rischi che possono emergere e che possono minare la sua realizzazine. Da stime effettuate dal Polimi, attualmente in Italia la media dei tempi di realizzazione delle opere pubbliche è di 4,4 anni. Oltre metà dei tempi dell’iter complessivo (il 54,3%) è costituita dai cosiddetti “tempi di attraversamento” che intercorrono tra la fine di una fase e l’inizio di quella successive, il più delle volte per imprevisti non calcolati. McKinsey stima che il 98% dei progetti di investimenti in asset infrastrutturali possa incorrere nell’80% d’aumento di costi dal valore originale e 20 mesi di slittamento dei tempi di consegna.
È noto altresì che i progetti infrastrutturali risentono di una significativa mancanza di gestione del rischio in quasi tutte le fasi della catena del valore del loro ciclo di vita, che non risparmia i progetti pubblici che, una volta realizzati, passano ad essere gestiti da strutture il più delle volte carenti delle competenze necessarie, mantenendo la prassi più comoda ma ben più costosa dell’”intervenire” piuttosto che del “prevenire”.
… come?
Se è vero che i rischi minano gli obiettivi prefissati è altrettanto vero che la maggior parte dei rincari dell’opera sono prevedibili e dunque evitabili o contenibili.
Occorre cambiare l’abitudine consolidata di tendere a “risparmiare” in fase di progettazione iniziale, affidandosi spesso all’esperienza, demandando in seguito eventuali modifiche. Questo approccio non considera che i costi a posteriori causati da errori e mancanze di valutazione, sono molto più alti se paragonati al potenziale “risparmio” che si otterrebbe adottando preventivamente una metodologia in grado di valutare già in fase progettuale e prospetticamente le criticità che ne possono derivare nella fase gestionale- manutentiva delle opere.
Certamente la realizzazione di una serie di interventi di manutenzione sul territorio, con un focus sulla sicurezza, rientra tra le urgenze. Emerge l’esigenza di una mappatura dei manufatti, in particolare in ambito viabilistico, che vada oltre la catalogazione in base al loro stato corrente e alle necessità manutentive, e che inglobi anche i rischi finanziari ed economici, oltre a quelli ingegneristici, per orientare correttamente gli interventi (manutenzione o dismissione).
Diventa importante promuove il concetto che per poter creare e mantenere alto il valore di un asset è essenziale saper prevedere e gestire i rischi in modo strutturato. La corretta implementazione di un impianto di governance dei rischi teso alla creazione di valore, consentirebbe un migliore controllo delle perdite e quindi l’ottimizzazion delle risorse investite. Le ricadute sarebbero positive sia per Enti pubblici che per Società private: talvolta la convinzione che gestire i rischi del proprio parco progetti sia un costo evitabile perché non indispensabile, porta spesso a fronteggiare situazioni inaspettate che si concludono con l’abbandono dell’incarico e l’opera non realizzata.
Per rendere possibile questo processo virtuoso è necessario agire su due fronti: da un lato c’è bisogno che le pubbliche amministrazioni e le aziende private si dotino di strumenti e professionalità adeguate per una corretta e sana gestione dei rischi, dall’altro che la valutazione e gestione del rischio diventi processo strutturato e applicata a tutti i livelli progettuali e gestionali di un asset, con l’obiettivo che implementare la cultura del risk management sia l’unico strumento in grado di portare a compimento i progetti, creando valore sociale.
Di riflesso l’accresciuta probabilità del rispetto di tempi e costi previsti e la riduzione dei fallimenti realizzativi, può essere utile a mitigare il malcontento generale del cittadino, e generare la soddisfazione dell’utente, che si traduce in una rinnovata fiducia nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Conclusioni
I progetti di sviluppo infrastrutturale sono motore di economia e benessere, un vettore imprescindibile per la creazione di valore in un Paese. Ma perché essi vengano realizzati nel rispetto delle regole di compliance e buonsenso, è necessario un rinnovato grado di maturità che solamente un approccio di stampo globale al risk management può garantire.
Un’opera ben progettata offre certezze maggiori su quello che sarà il suo ciclo di vita con un margine di incertezza su efficienze e costi piuttosto bassi e facilmente quantificabili anche in campo di finanza immobiliare, e con i corretti monitoraggi e interventi manutentivi garantirà elevati livelli di “asset integrity” e manterrà alto il suo valore nel tempo.
Alimentando e implementando la cultura “del prendersi cura” dei nostri beni, sarà possibile pensare di limitare le tragedie e arginare perdite e sprechi. Inoltre un miglior controllo sui costi consente alle aziende di avere un’esposizione al rischio più consapevole, che le pone al riparo da quelle perdite occulte che minano il progetto fino a farlo fallire, e consenta loro un vantaggio competitivo di lungo respiro, mantenendo alto il loro valore etico e professionale.
Irene Caffaratti
Architetto, consulente e docente in manutenzione civile e Facility Management