Nella fase a cavallo fra la prima e la seconda rivoluzione industriale, il manutentore era un artigiano anche quando operava all’interno della fabbrica. Un individuo indipendente dalla organizzazione aziendale che era in grado di progettare-riparare-recuperare le macchine del sistema produttivo manifatturiero.
Oggi, con maggiore enfasi e sempre riguardo al manifatturiero, si è passati dalla indipendenza individuale a quella di gruppo, con le prime esperienza di Global Service. Anche se il Global Service in manutenzione ha avuto alterne fortune, e la fiammata dei primi anni 2000 si è spenta in pochi anni, esso ha segnato un cambiamento di passo nell’intendere la governance manutentiva, il quale ha aperto la strada ai service che ne hanno ereditato l’esperienza.
Se con Manutenzione 4.0, figlia della industria 4.0, intendiamo una maggiore integrazione dei sistemi per effetto della robotizzazione e dell’informatica, e una dipendenza sempre maggiore da Big Data, con il ritorno all’1.0, vogliamo sottolineare per prima la relativa indipendenza dei servizi di manutenzione, dalla gerarchia aziendale.
L’indipendenza è un fatto che si riscontra con sempre maggior frequenza in una vasta categoria di imprese manifatturiere e di servizi e il motivo è presto detto.
L’alto livello di specializzazione che hanno raggiunto numerosi servizi di manutenzione è difficilmente mutuabile all’interno di una sola azienda, anche se grande. Così dal monolite del Global Service sono nati dei Service che forniscono alle aziende “chiavi in mano” l’expertise necessaria per affrontare qualsiasi fabbisogno che nuovi impianti tecnologicamente sempre più avanzati possono richiedere.
Viceversa, ci sono imprese che hanno una forte integrazione fra prodotto, processo, manutenzione sia nel versante tecnologico sia organizzativo.
In entrambi i casi la tecnologia riveste un ruolo importante, ma ancora più importante è il manutentore, oggi sovente laureato in una materia scientifica, spesso ingegneria.
L’amico Giuseppe Meneguzzo, ex Presidente A.I.MAN., soleva ripetere che in manutenzione l’elemento chiave è il “fattore uomo”.
Un altro elemento che richiama la Manutenzione 1.0: non solo Big Data, non solo integrazione e tecnologia, ma soprattutto Capitale Umano.
Gli algoritmi, la realtà aumentata eccetera, aiutano nella diagnosi e persino durante l’intervento, ma non trasformano un analfabeta in esperto di manutenzione. La Cultura ha ancora un grande peso, perché arriva là dove non arrivano le macchine.
Se la seconda e la terza rivoluzione industriale hanno campato sulla divisione del lavoro e, in manutenzione, sulla parcellizzazione dei compiti (negli anni ’70 si contavano centinaia di mestieri manutentivi diversi nelle industrie primarie), la quarta rivoluzione ha portato a una integrazione su principi nuovi, non il recupero di una visione “olistica”, che pure in manutenzione sarebbe necessaria, ma l’utilizzo spinto di algoritmi e Big Data, per automatizzare il processo di diagnosi e, in parte, di riparazione.
Le aziende di maggiore successo, però, hanno puntato di nuovo sulla conoscenza dei sistemi, sulla capacità di riprogettarli e adeguarli nel tempo, ossia sono tornate a quella conoscenza del (ri)progettare-riparare-recuperare le macchine anche con sistemi complessi, che due secoli prima già esercitavano, seppur con sistemi molto più semplici.
In questo senso la manutenzione si distacca dalla liturgia comune 4.0, perché l’aumento della complessità e della integrazione dei sistemi hanno reso più urgenti gli interventi migliorativi con lo scopo di mantenere o migliorare il grado di affidabilità reso sempre più labile dal moltiplicarsi delle connessioni serie-parallelo fra i componenti.
Oltre a ciò, l’accento sulla riparazione che con maggiore enfasi da qualche anno promuoviamo anche sulle pagine di questa rubrica ha riportato il tema del riparare al centro del dibattito manutentivo.
Da un lato quindi una prevenzione attiva e importante con la migliorativa, che sorpassa le pur buone intenzioni della prevenzione passiva, che con la diagnostica precoce o predittiva, la ciclica e le manutenzioni di routine, ha raggiunto il massimo con l’affermarsi negli anni ’80 del TPM di Sejiki Nakajima, e con la sua successiva diffusione in Italia, soprattutto nel manifatturiero.
Da un altro lato, la Riparazione, non più figlia di un Dio minore, diviene elemento centrale della azione manutentiva per le pressanti esigenze di sostenibilità e di supporto alla circolarità della economia. La riparazione con o senza ammodernamento e/o ristrutturazione, e il conseguente aumento della longevità, è difatti indispensabile per ridurre il cumolo dei rifiuti e utilizzare al meglio le cd Miniere Urbane.
Pertanto, il ruolo del Manutentore non può prescindere dagli aspetti culturali e, oserei dire, interpersonali, in controtendenza alla moda dello smart working (o lavoro agile, come dir si voglia).
La visione di chi aveva intuito, alle soglie dell’anno 2000, un futuro di aziende specializzate in manutenzione puntando sul Global Service, non era sbagliata, forse solo un po’ pretenziosa. Certo l’esigenza di una formazione continua, o meglio di una continua formazione, e dello scambio di esperienze fra pari, facilitate in una azienda specializzata perché incentivanti il core business, ha aumentato col tempo il divario fra la manutenzione aziendale e quella terziarizzata.
Ecco, quindi, la Manutenzione 1.0, un ritorno al passato della manutenzione nel manifatturiero, sia come modello organizzativo, sia come integrazione del ruolo (“olismo”?), ma in tutta la sua modernità, guardando al futuro, cercando il non ancora che ha subito una netta accelerazione con il diffondersi del coronavirus e nuovi modi di fare manutenzione nelle imprese.
Maurizio Cattaneo