Dopo dieci anni di Industria 4.0 siamo approdati, complici anche gli ingenti investimenti del dopo Covid in Europa e negli USA, ad una nuova dimensione industriale: l’industria 5.0.
Mentre l’industria 4.0 fu incentrata su IoT, Big Data e l’interconnessione fra i sistemi, il focus sulle nuove tecnologie, l’Industria 5.0 è incentrata sull’uomo, sulla sostenibilità e sulla resilienza. La sostenibilità non sarà più intesa dalla UE come una mera questione ambientale, ma sarà inserita dentro una politica integrata ed inclusiva avendo come fine l’Economia Circolare.
Il piano Industria 4.0 fu ipotizzato in Italia subito dopo un analogo provvedimento presentato in Germania nel 2011 alla Fiera di Hannover (Henning Kagermann, Wolf-Dieter Lukas e Wolfgang Wahlster, Zukunftsprojekt Industrie 4.0, 2011). Ma è solo nel 2016 che il governo Renzi ha stanziato i fondi per un progetto chiamato Impresa 4.0, che venne presentato dall’allora Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda.
Oggi, dieci anni dopo la prima formulazione, e con una parte dei fondi stanziati nel 2016, già spesi, la pandemia ci ha fatto riflettere e focalizzare verso nuove direzioni le strategie industriali a livello mondiale e di conseguenza anche nel nostro paese.
Big Data, Realtà Aumentata, Additive Manufacturing, IoT, Data & Information Security, Robotica, sono ormai conquiste consolidate nelle aziende, specie nelle piccole e medie imprese per loro natura più flessibili, con lo sviluppo di tecnologie sempre più potenti. Parimenti il sistema scolastico italiano si è allineato a queste tendenze creando nuove figure professionali e nuovi percorsi formativi coerenti con l’evoluzione tecnologica in atto. I consumatori hanno tratto vantaggio da questa minirivoluzione con una riduzione dei tempi di immissione sul mercato di prodotti innovativi sempre più legati alla sostenibilità e alla circolarità dell’economia. Sembra una bella favola e allora cosa ci possiamo aspettare per un futuro che appare quanto mai roseo?
Lo scopo dell’Industria 5.0 è di combinare le superiori capacità delle macchine nel garantire volumi e precisione, con l’intelligenza e la maggiore flessibilità degli umani, per una produzione qualitativamente migliore, specializzata, “su misura” ed economica. Tuttavia, alla base di questi ragionamenti c’è anche l’esigenza della politica e dei governi di ridisegnare gli equilibri sociali, economici, tecnologici e ambientali in un’ottica di sostenibilità. Lo stesso Bonomi segnalava qualche anno fa, la necessità di non crogiolarsi in un approccio esclusivamente ingegneristico come la natura delle nuove tecnologie lascerebbe supporre, ma di affrontare la materia con un approccio multidisciplinare dove abbia un ruolo importante anche la sociologia (Aldo Bonomi, La società circolare. Fordismo, capitalismo molecolare, sharing economy, 2016) in modo da sincronizzare l’evoluzione tecnologica con l’evoluzione sociale.
Forse anche complice la recente esperienza della pandemia, è un fatto che i governi dei paesi più avanzati e l’Unione Europea, abbiamo cercato di coniugare i concetti di equità, prosperità, sicurezza e sostenibilità con l’innovazione tecnologica. Investendo per questo cifre considerevoli, come quei 1.000 miliardi di euro legati al Green New Deal che abbiamo più volte citato nella nostra rubrica.
Chissà mai che i piani nazionali e internazionali di rilancio non riescano a gettare le basi di una società ad alta tecnologia realmente a misura di uomo, in grado di far convergere l’intelligenza artificiale, i big data, i robot e le altre innovazioni del nostro tempo verso i grandi problemi strutturali della nostra società.
Nel percorso verso la società 5.0, infatti, l’innovazione digitale lascia il passo al concetto più ampio di innovazione sociale, intesa come utilizzo della tecnologia e sviluppo di modelli imprenditoriali che abbiano come primo obiettivo l’impatto positivo alle vite delle persone e delle società, secondo una logica di valore diffuso e condiviso.
Tornano di moda così valori come cooperazione, collaborazione, condivisione e quella sharing economy di cui parlava Aldo Bonomi. L’impatto sulla organizzazione della manutenzione è fortunatamente assai soft, dato che in manutenzione abbiamo assistito negli ultimi 30 anni a trasformazioni ben più “pesanti”.
Gli anni ’90 furono caratterizzati dalla diffusione della Lean Organization, per dirla con un linguaggio di oggi si è cercato di ridurre drasticamente la “latenza”. Per questo motivo si ridussero al minimo i livelli organizzativi, trasferendo la delega ai livelli più bassi dell’organizzazione nelle posizioni operative.
Questo fenomeno ha creato nuove figure professionali in manutenzione, come ad esempio il “meccatronico” figura che oggi è una delle più ambite nei nostri Istituti Tecnici Tecnologici.
La bassa “latenza” permise di eliminare quelle figure intermedie che messi li un tempo a presidiare l’innovazione tecnologica, erano diventate un elemento di frizione e rallentamento per l’operatività manutentiva. Al giorno d’oggi sembravano invece “messi nella vigna a far da pali” come scrisse finemente il Giusti. E parimenti, una bassa “latenza”, permise al manutentore di intervenire più rapidamente ed efficacemente essendo lui stesso l’organizzatore e il giudice del suo operato. Un po’ come quando guidiamo la nostra automobile, pensate se chi aziona freni, cambio e frizione, fosse una persona diversa da chi ha in mano il volante e decide quale direzione prendere.
Allo stesso modo con il cd “edge computing”, uno dei pilastri della industria 4.0, si è cercato di trasferire concetti come la Lean Organization e la “delega verso il basso”, alle apparecchiature tecniche avvicinando così la validazione dei dati alla loro origine, con l’analogo obiettivo di ridurre la “latenza”. Tali potenzialità si sono ulteriormente ampliate con la diffusione del 5G. Una rete mobile caratterizzata da un’ampia larghezza di banda e anch’essa da tempi di “latenza” molto bassi.
I nostri tempi ci ricordano un po’ il motto dei giochi olimpici da Atene 1896 in poi: “citius, altius, fortius” (più svelto, più alto e più forte). Motto che fu segnalato anche da Richard Schonberger nel 1987 in “World Class Manufacturing”, fra le pagine conclusive.
D’altro canto, è proprio grazie allo “edge computing” che la manutenzione può fare analisi predittive intervenendo prima che il macchinario si rompa. Oppure fermare immediatamente una macchina che sta producendo pezzi difettosi. Con una netta riduzione dei fermi macchina e la conseguente maggiore disponibilità degli impianti.
I Robot in questo scenario sono uno degli elementi chiave. Nell’ultimo decennio hanno fatto registrare crescite a due cifre e, si temeva, con l’automazione spinta, una parallela diminuzione della occupazione. Ma, invece, non tutta l’automazione viene per nuocere. Specie per il lavoro del manutentore.
Già nel 2001 Joel Leonard (Maintenance Crisis, 2001) metteva in guardia dalle criticità che sarebbero emerse a causa del pensionamento dei tecnici. Le maestranze che negli anni ’80 e ’90 avevano sostenuto con il loro lavoro l’innovazione tecnologica, nei due decenni successivi sarebbero andate progressivamente in pensione.
L’automazione con le sue nuove regole e figure professionali ci venne in aiuto con nuove expertise e nuovi percorsi curricolari, che non ci avrebbero fatto rimpiangere gli “esodati”.
I nuovi Robot, saranno maggiormente collaborativi con gli “umani”, progettati per interagire con il personale all’interno di uno spazio di lavoro. Dal sollevamento assistito, ai sistemi di visione integrata. In altre parole, assisteremo ad una automazione “sociale”. Sono certo che nei prossimi anni ne vedremo delle belle anche in manutenzione, con Morgan Stanley, che sostiene per la robotica collaborativa una quota del 17% sul totale delle installazioni nei prossimi dieci anni, rispetto al 5% attuale. E l’Economia Circolare a fare la regia.
Maurizio Cattaneo