Chi investe in manutenzione fa quello che in economia è considerato uno degli atteggiamenti più virtuosi in tempo di crisi: prepara la sua azienda per uscirne, dalla crisi, costruendo quella base solida necessaria per non pregiudicare le condizioni di crescita e indispensabile per aumentare le entrate anziché ridurre (solo) i costi.
Per chi taglia la manutenzione, invece, non ci sono alibi.
Spese vs investimenti
Non è da ieri, va detto, che si cerca di contenere le spese, a partire dall'ambito privatistico dove questo può portare a una percezione immediata di incremento degli utili, per arrivare a quello pubblico, in realtà più in conseguenza di tagli a trasferimenti da parte dello Stato che non per sincera vocazione alla buona amministrazione. Ormai nessun settore si "salva" (le virgolette sono d'obbligo per un processo che se non vissuto allarmisticamente ha molto di virtuoso), dall'industria manifatturiera e di processo al comparto delle public utilities. In fondo quella dei tagli alle uscite è la strada più facile, di fronte alla incapacità di prevedere concreti aumenti delle entrate, ossia di valore prodotto in termini di beni e di servizi.
Suona strano questo approccio all'insegna della rassegnazione: si pensi ad esempio al sistema di mobilità. L'Italia è un Paese dove la domanda di servizi è crescente e tutte le analisi dimostrano che la propensione alla spesa in questo settore permane elevata continuandosi a preferire al trasporto pubblico, soluzioni più costose come il viaggio nella propria auto o l'inoltro delle merci su strada rispetto a un'offerta di mobilità collettiva (ma anche privata, nel settore su ferro) non all'altezza della domanda. Un'offerta evidentemente non di qualità.
Strano ma accade: sui giornali, nei comunicati stampa, e soprattutto fra operatori non si discute di nuovi servizi, di piani d'investimento su nuove offerte di trasporto, di ricostituzione (almeno parziale!) di quel prezioso tessuto di infrastrutture incautamente demolito ai tempi di un apparente "boom". Si parla di tagli, di riduzione della spesa corrente, di budget. E lo si fa con un approccio di tipo finanziario, che guarda al breve periodo (il biennio) e tenendo d'occhio alcuni parametri, non con un'ottica industriale, che guarda oltre e mira ad un utile strutturale.
Ma il taglio ai "costi" della manutenzione è davvero virtuoso? Provoca davvero ripercussioni positive sui bilanci? Nel breve periodo certamente sì, ed è questa illusoria constatazione che ha portato in troppi casi a
subordinare piani industriali di medio respiro a chiusure di bilanci che imponevano appunto "rientri" rispetto a soglie che avevano a che fare più con l'andamento dei mercati finanziari che non con l'effettiva crescita della produttività. Risultato? I costi non sono diminuiti, tutt'altro, e molte realtà italiane si trovano oggi ai margini del mercato.
Questo fenomeno, un classico dell'economia spicciola, avviene sempre allorché si confondono spese con investimenti, derubricando nella prima categoria i costi dettati dal mantenimento in efficienza dei parchi veicoli a guisa di spese accessorie. Ma non sono spese accessorie: per un'impresa di trasporto le professionalità sviluppate e gli asset aziendali sono business. Core business.
Catena di comando e catena di responsabilità
Il workshop ManTra di marzo, dedicato alla sicurezza sul lavoro e che ha visto come docente principale un magistrato inquirente suggerisce però un'ulteriore dimensione di lettura del problema.
Al piano meramente di politica industriale se ne aggiunge però un altro, anch'esso particolarmente rilevante in Italia, legato alla sicurezza del lavoro e sul quale è utile fare qualche riflessione. In un sistema giuridico come il nostro, in cui alla deregulation (opzione tutt'altro che disprezzabile in presenza di pochi ma chiari principi di Legge) è contrapposta una disciplina particolarmente severa; quando si parla di sicurezza correlata con i processi manutentivi il tema non è tecnico ma penale.
Muovendo da questa semplice considerazione (ancora poco compresa da molti fra i datori di lavoro e dirigenti) ci si ponga una domanda: se gli oneri di sicurezza nelle procedure a evidenza pubblica non sono soggetti a ribasso d'asta, gli oneri di manutenzione possono essere in generale qualcosa da tagliare? Forse che la manutenzione/conduzione non è, quando si parla di beni, l'origine prima del rischio e della sua corretta gestione?
I datori di lavoro e gli amministratori, è bene ricordarlo, sono coloro che hanno poteri decisionali e di spesa e di questi poteri rendono conto in prima persona laddove non possano dimostrare di aver attuato quanto in loro potere per attuare una precisa gestione del rischio; è ben difficile che tale condizione possa essere dimostrata in presenza di investimenti che privilegiano magari l'ottimizzazione delle scorte di magazzino, la corretta schedulazione dei cicli produttivi o anche la compliance con qualche certificazione: non sono queste foglie di fico a impedire un avviso di garanzia, un processo, in taluni casi anche la carcerazione preventiva.
Qualche indicazione per correggere il tiro
Le figure sopra descritte, le "teste" dell'azienda (che non sono peraltro gli unici ad essere coinvolti ma sono sempre gli unici ad esserlo di sicuro) hanno, tipicamente:
- obiettivi da misurare, e dunque serve loro un sistema di misura ma anche di quelli tecnici, manutenzione in primis (non solo dei processi produttivi)
- controllo del rischio da attuare, e dunque necessità di un relativo sistema di gestione
Manutenzione, da questo punto di vista, non è solo dunque "ingegneria di-" ma soprattutto definizione e attuazione di procedure per la gestione di un processo complesso, cui partecipano più attori sotto un'unica catena di responsabilità, che in caso di incidente viene individuata - qui è bene intendersi - non in base ad organigrammi aziendali, deleghe scritte o certificazioni ottenute, ma su elementi oggettivi raccolti a cura dell'autorità inquirente e sentite le parti in ordine al reale potere di organizzazione del lavoro (e, per esser chiari, chiunque può essere un "preposto", anche inconsapevolmente).
Può sembrare, questa, una sorta di moral suasion verso gli investimenti nel settore tradizionalmente più trascurato fra quelli aziendali (persino per il marketing talvolta si spende con più leggerezza che nella manutenzione, e a fronte di ritorni tutt'altro che certi), ma a ben vedere è solo un indirizzo di buona gestione: con il pieno controllo analitico di tutte le performance economiche, ivi compresa la spesa manutentiva (e la devoluzione in questi casi non funziona quasi mai, come dimostra la re-internalizzazione dei processi da parte dell'industria) e il pieno controllo del rischio (possibile anch'esso solo attraverso un sistema di misura dei comportamenti degli operativi e di gestione delle competenze) l'obiettivo di bilancio si sposta da quello - tipicamente finanziario - dei 2/3 anni a quello più proprio per piani industriali di aziende che mirano a stare sul mercato.
Ecco dunque come orientare gli investimenti nella manutenzione: il rinnovo del parco è una soluzione "facile" in presenza di un mercato veicolare fluido, ma non è il periodo storico in cui ciò avviene, l'esternalizzazione della manutenzione va talvolta bene, ma si disperdono competenze e si allontana la possibilità di influire sul mercato stesso, finendo per subirlo, nuove tecniche manutentive e nuove tecnologie applicate sono spesso fonte più di ulteriori problemi che soluzioni in sé? il primo investimento è quello del controllo analitico. Solo con esso si conosce la reale causa di disponibilità dei beni. Solo con esso è possibile mantenere in efficienza e prolungare la vita utile dei beni allontanando la curva ascendente della ben nota "vasca da bagno". Solo con esso si può controllare il costo del ciclo di vita di un bene e dunque capire come attuare - giorno per giorno - politiche efficaci di make or buy.
Quante aziende di mobilità, di trasporto, di servizi erogati mediante flotte di veicoli complessi (si pensi al comparto dell'igiene urbana) dispongono oggi di sistemi gestionali per il controllo analitico della manutenzione? Quanti lavorano ancora con Excel, con la carta, con il sistemino fatto nel sottoscala dal proprio dipendente più brillante? Quanti dispongono solo di una gestione dell'ERP su cui si limitano a rendicontare qualcosa? E quanti conoscono il dettaglio della propria spesa manutentiva, che significa conoscere le cause della stessa? Quanti, per rispondere a "quanto spendi di manutenzione?", devono attendere la chiusura dei bilanci? Quanti, in caso di incidente, possono certificare che tutto quanto era previsto di fare è stato fatto dalle persone con le giuste competenze e - soprattutto - tutto è già previsto per scongiurare quell'incidente che per fortuna non è ancora accaduto? In quante realtà l'operativo certifica ciò che fa e nel momento in cui lo fa, in risposta ad un ordine di lavoro definito sulla base delle corrette competenze? E in quante aziende che possiedono flotte di veicoli le richieste di intervento ("hei, ?sto bus frena male, dai una controllata") sono processate - e registrate - correttamente? La risposta è, alternativamente: "troppo pochi" o "troppi", sintomo che la cultura manutentiva non riesce ancora a raggiungere i livelli di vertice.
Resta in officina.
È un sintomo ben noto a chi scrive: il bisogno di strumenti di gestione della manutenzione è spesso percepito, talora anche ben dettagliato, ma esso non riesce a raggiungere il vertice, più sensibile a temi legati ai saving (nell'immediato), alla sicurezza (propria), alla qualità. E sono dunque questi i tasti da toccare per aumentare la consapevolezza della proprietà e della dirigenza che spendere in manutenzione significa fare investimenti nodali nel proprio piano industriale. E che questi investimenti non possono essere limitati a qualche decina di migliaia di Euro per accontentare il responsabile tecnico.
Alessandro Sasso,
Presidente ManTra