Aldo Bonomi quando vagheggiava del non più e del non ancora, situandoci in una terra di mezzo, che qui in Italia sembrava proprio una terra di nessuno, sospirando sulle comunità concrete di Adriano, non avrebbe potuto immaginare che un anonimo coronavirus avrebbe creato le premesse per cambiamenti epocali (Aldo Bonomi, La società circolare. Fordismo, capitalismo molecolare, sharing economy, 2016).
Cambiamenti anche in manutenzione.
La manutenzione è quel mestiere che ci permette di far durare le cose nel tempo. Il non ancora per noi era pur sempre un pezzo di futuro che sapevamo doveva per forza realizzarsi, perlomeno nel lungo periodo.
L’avvento del coronavirus ha accelerato i tempi e richiamato la nostra attenzione su alcune tendenze in atto in una società sempre più permeata da idee green. Idee fra le quali la più dirompente ha dato vita al non ancora dell’Economia Circolare.
Economia Circolare è un concetto che trova i suoi fondamenti pratici nella Manutenzione. Come abbiamo più volte sottolineato in questa rubrica: niente Manutenzione, niente Economia Circolare. È un dato di fatto.
Ma la Manutenzione andando verso il non ancora della Economia Circolare, ha bisogno di nuovi ambiti culturali, non bastano le fertili acquisizioni avvenute nel passato con il crescere delle industrie più estreme, ora è necessario un cambio di paradigma, che la pandemia ha reso più urgente.
Aveva visto giusto Donella Meadows nel 1972 quando nelle ultime pagine dei Limiti dello Sviluppo, realizzato dal MIT per il Club di Roma, fece la seguente predizione: “la manutenzione è forse l’unica alternativa allo sviluppo incontrollato delle attività produttive che porterà al disastro l’umanità” (I Limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group, MIT, 1972).
Ora che a causa del coronavirus, abbiamo recuperato temporaneamente un rapporto con la natura, ci si chiede “come” la manutenzione può rappresentare una alternativa.
Seguo diversi gruppi di ragazzi che assistiti dai docenti di alcune scuole superiori e università, “spaciugano” con elettronica, robotica e informatica nei Fab Lab delle principali città romagnole. In Italia sono sorti un po’ dovunque Repair Cafè e Restart Party, parole anglosassoni che potremmo tradurre con i nostri laboratori di quartiere sperimentati in Italia negli anni Ottanta da Renzo Piano e Gianfranco Dioguardi.
Un modo per volgarizzare la manutenzione, per renderla popolare a livello del cittadino. Un nuovo paradigma.
Beninteso, in tempi più recenti sono nati numerosi laboratori di quartiere, soprattutto nelle grandi città, ma con scopi diversi incentrati sui bisogni sociali e sugli investimenti. Li hanno chiamati bilanci partecipati e partecipazione è la parola chiave di queste attività.
I laboratori di quartiere che abbiamo in mente sono più umili e più aderenti al modello nato in Italia negli anni Ottanta. Sono laboratori di manutenzione, dove si sorvegliano i degradi e le derive dei manufatti, oggetti, sistemi pubblici o privati, si segnalano disfunzioni e ci si ritrova per imparare a riparare gli oggetti di uso quotidiano.
Se vogliamo dare vita, nelle nostre città, alla Economia Circolare non ci sono alternative bisogna cominciare dal basso. È necessario attivare il mantenimento dei manufatti, oggetti, sistemi con la loro riparazione se guasti, o con l’adeguamento tecnologico e il costante ammodernamento se soggetti al rischio di obsolescenza.
In altre parole, dobbiamo aumentare in modo significativo la longevità dei manufatti, oggetti, sistemi, pubblici o privati.
A livello di impresa specie nel manifatturiero è tutto più facile perché la manutenzione è meglio organizzata e facilmente può evolvere in sintonia con le esigenze dell’Economia Circolare. Non è così semplice sul territorio, per questo servono i laboratori di quartiere.
Il nome non ha molta importanza, chiamateli laboratori o quel che vi pare. L’esperienza dei movimenti che sostengono il valore della riparazione è una sorta di elitaria anticipazione di quello che vorremo applicare.
Movimenti come I-Fix-It, Repair Cafè, Restart Party, hanno portato il riciclo e la riparazione alla attenzione del mondo. Sono formati da persone lungimiranti, avanguardie che hanno visto in anticipo le derive che caratterizzano la nostra società dell’usa e getta. Essi hanno saputo usare prima e meglio di altri le cd Miniere Urbane, fonti insospettabili di materie prime utili per le riparazioni e per il mantenimento nel tempo degli oggetti utilizzati dai cittadini.
La prima richiesta che tali movimenti hanno posto all’attenzione della politica è il diritto alla riparazione, ossia il diritto ad accedere a informazioni e risorse necessarie per la riparazione in modo che i prodotti siano durevoli, efficienti e riparabili.
Il luogo dove applicare questi diritti è il laboratorio di quartiere, una sorta di laboratorio-scuola dove il cittadino trova esperti che lo aiutano a riparare i propri oggetti guasti e allo stesso tempo dove può conoscere le tecniche e a sua volta insegnarle ad altri. Luoghi d’incontro tecnologici, dove professionisti e artigiani, neofiti ed esperti, cooperano per imparare la manutenzione e tutte le sue appendici tecnologiche.
Il modello educativo è simile a quello dei Fab Lab teorizzato al MIT di Boston, da Neil Gershenfeld e Seymour Papert (allievo del grande filosofo e pedagogista svizzero, Jean Piaget): “imparare producendo”.
Un metodo che in un contesto solo apparentemente diverso l’Italia ha conosciuto molto tempo prima con gli atelier rinascimentali e con gli insegnamenti di Maria Montessori e Don Lorenzo Milani.
Il laboratorio è a tutti gli effetti una scuola di vita manutentiva non meno importante delle scuole che a diversi livelli di istruzione formano i manutentori professionisti.
Il divario fra il manutentore professionista e il cittadino dilettante viene parzialmente colmato da queste scuole collettive di quartiere in modo che il sapere manutentivo diventi un sapere generalizzato a disposizione di tutti i cittadini. Ciò non significa la scomparsa degli specialisti, dei manutentori professionali, ma anzi ne valorizza le competenze, perché il loro lavoro diventa più comprensibile.
Un po’ come è avvenuto in medicina, negli ultimi anni caratterizzati dalla ubiquità delle informazioni. Il cittadino è più attento alla salute, conosce meglio il proprio corpo rispetto al passato, sa applicare semplici terapie, ma questo non ha reso inutili i medici e gli specialisti della sanità. Anzi. Ha consentito ai professionisti della medicina di essere “capiti” dai loro pazienti più di quanto non avveniva in passato e conseguentemente di mettere in condizione i pazienti di fare scelte consapevoli.
Noi professionisti della manutenzione abbiamo molto da imparare dai cittadini che frequentano i laboratori di quartiere. Tutti a scuola di manutenzione quindi per sviluppare una intelligenza collettiva, una consapevolezza manutentiva, che sarà molto utile alla nostra società.
Un nuovo paradigma che a seguito di questa esperienza pandemica aiuterà a concepire per le operazioni di manutenzione adeguati spazi di lavoro e un modello di Industria 4.0 coerente con esso.
Maurizio Cattaneo