Questo editoriale potrebbe essere inteso dal lettore come seguito delle riflessioni già portate nei più recenti editoriali di direzione, a firma di Bruno Sasso e del sottoscritto. È anche così, ma è non solamente questo il motivo che mi muove a scrivere. Chi mi ha stimolato, come un’ispirazione inattesa per questa riflessione di fine anno, è un amico. È un amico che non vedevo da anni, ritirato da tempo dal mondo del lavoro, e con il quale ho avuto il piacere, e la fortuna, di aver condiviso i primi passi della mia professione in manutenzione.La riflessione, che porto in questo editoriale, arriva anzitutto grazie alle sue considerazioni, prima come uomo e poi, anche, come ingegnere di manutenzione che lavorava in un’epoca nella quale la manutenzione, in Italia, doveva ancora affrancarsi da retaggi del passato che la ponevano in una posizione subalterna rispetto ad altre funzioni aziendali. Non nominerò mai il mio amico, volutamente. Ciò nondimeno, utilizzerò alcuni suoi pensieri per condividerli con il lettore.
Il mio amico era uno dei protagonisti dello svecchiamento del concetto di manutenzione, essendo parte di quel gruppo di persone che ne anticipava il futuro. In quel gruppo, ci sono due persone che nominerò e che contribuirono fortemente allo sviluppo della manutenzione, stimolandone il cambiamento da essere funzione tecnica a divenire funzione capace di una gestione ingegnerizzata.
Senza dubbio, il primo che voglio ricordare è Luciano Furlanetto, past president A.I.MAN.. Io, da giovane che si avvicinava al mondo della manutenzione, presi in mano il suo “Manuale di Manutenzione degli Impianti Industriali e Servizi”. Luciano ne fu curatore. Ancora oggi un distillato di conoscenza di assoluto valore, è stato scritto con la collaborazione di una serie di professionisti che Luciano coordinò con una visione chiara e saggia portando così ad un fondamento per la cultura di manutenzione in Italia, rinfrescata con una visione di natura ingegneristica che andava oltre la pratica industriale del tempo. Al di là di apprezzarne la fattura come scritto, posso dire di aver potuto riscontrare, qualche anno dopo, l’impatto del Manuale sulla crescita della cultura manutentiva, un primo elemento importante da tenere in considerazione – e non dimenticare – ai tempi odierni.
Ebbene, perché ricordare il Manuale di Luciano? L’amico, che ha ispirato questo editoriale, ha portato alla mia attenzione – caso mai fosse necessario – l’importanza di persone, come Luciano, che hanno saputo guardare al Futuro della Manutenzione in un’epoca non facile (ndr: Futuro e Manutenzione in maiuscolo), epoca in cui la Manutenzione doveva sdoganarsi dall’essere un costo, un male necessario, un’attività per tecnici / specialistici, un lavoro da “sporchi, brutti e cattivi” (dirty job) e altri concetti di accezione negativa, chi più ne ha, più ne metta. Ho anche esagerato nel dipingere la Manutenzione; comunque, non penso di essere stato lontano dal vero: il mio amico mi ricordava che era proprio così, anche in molte grandi aziende, multinazionali, dove l’uomo di Manutenzione veniva chiamato e si palesava, magari manifestandosi da uno sgabuzzino angusto che era il suo ufficio, quando serviva perché c’era un guasto. Per metafora, qualcuno diceva che la Manutenzione era come un pompiere che spegneva fuochi.
Luciano Furlanetto portò una visione molto avanti per i tempi, non fu il solo. Grazie ancora a Luciano ci fu un’azione di appoggio, sia tecnica sia istituzionale (come A.I.MAN.), di quello che fu il primo insegnamento in Italia istituito, a livello di Corso di Laurea, su tematiche di “Gestione della Manutenzione”. L’innovatore ed artefice di questo nuovo corso, presso la mia alma mater, il Politecnico di Milano, fu Marco Garetti, mio mentore, con il quale sono cresciuto. Ricordo la mia reazione quando, molto tempo prima di pensare a questo nuovo insegnamento, mi chiamò nel suo ufficio, informandomi del fatto che si era reso disponibile a curare le tematiche di Manutenzione, dopo qualche anno di vacanza nel Dipartimento a cui appartengo di un cultore della materia (per inciso, prima era il compianto Francesco Turco, altra persona che – assieme a Luciano Furlanetto – ha fatto molto per la cultura di Manutenzione). Con questa novità, mi consultò anche in merito alla mia disponibilità ad essere un giovane cultore della materia, naturalmente di supporto e assistenza al piano di attività che da lì a poco sarebbero arrivate. La mia reazione fu ispirata dalla percezione negativa già ricordata, di Manutenzione come dirty job. Pensai: io mi occupo di produzione, perché scendere (abbassarmi (?)) a studiare una funzione tanto subalterna, che al massimo ripara? Pensiero certamente frutto della mia ingenua inesperienza…
Un’affermazione del mio amico ricorda l’importanza di questo legame storico tra Luciano e Marco, tra mondo industriale e mondo accademico. Scrivo più o meno le parole espresse dal mio amico qualche sera fa, a cena: “Sai Marco (ndr: si rivolgeva al sottoscritto), Luciano aveva una visione molto chiara, che precorreva i tempi. Con questa, ha preparato il terreno a quell’innovazione che avete portato voi, con forza (ndr: parlava a me, come universitario, ma non solo), con Marco (ndr: in tal caso Marco Garetti): avete saputo dare un’accelerata all’approccio di gestione ingegneristica del dato e della conoscenza di Manutenzione, per arrivare ad un modo davvero nuovo di pianificare, e non solo di fare manutenzione, pieno di contenuti tecnici e scientifici… quella è stata la vera innovazione…” (citazione del mio amico*) … Il mio amico si riferiva ai primi anni Duemila...
Con il taglio intimista di questo scritto, posso raccontare le mie reazioni a queste parole, un misto tra sorpresa e orgoglio… La sorpresa è prevalsa. Ripensandoci adesso, più a freddo, è evidente che all’epoca non ero per nulla consapevole di questa percezione industriale della nostra attività accademica, perché ero un neofita della Manutenzione. Poi, se penso alla mia attitudine personale, io preferisco l’evoluzione alla rivoluzione, preferisco pensare ad una genetica che cambia progressivamente e si migliora, e non all’innovazione che, per metafora, è come se fosse l’innesto su un tessuto che rischia di non essere pronto / maturo ad accoglierla, e quindi causa rigetto.
Per questa mia attitudine, spostando ora il pensiero su ricadute pratiche, aggiungo qualche riflessione che, a partire dal passato, cerca di fare riflessioni sul Futuro della Manutenzione.
La Manutenzione cresce quando acquisisce competenze ed esperienze che la portano ad essere protagonista nel processo decisionale. Questa crescita deve essere organica, ben fondata su quanto acquisito attraverso le esperienze e la formazione di conoscenza nel passato (alias, la genetica cambia progressivamente, col tempo).
Nell’essere protagonista all’interno del processo decisionale, Manutenzione deve essere capace di crescere con una gestione adatta alle esigenze dei tempi odierni: deve essere capace di gestire il rischio operativo, e deve essere dinamica e adattativa alle condizioni correnti del processo industriale. Con la gestione del rischio, Manutenzione combatte contro le incertezze che caratterizzano intrinsecamente il funzionamento degli impianti industriali, divenendo la “prima linea di difesa” di fronte ad eventi potenziali che possono avere costi “nascosti” potenzialmente ben più alti di quanto si prevede a budget, come costi “visibili”. D’altra parte, avendo la capacità di adattarsi alle condizioni del processo industriale, Manutenzione è in grado di adeguare le azioni manutentive, e i propri piani, alla miglior conoscenza dei processi e degli asset industriali per cui è chiamata ad operare.
Questi sono gli ingredienti di una ricetta, che ritengo essenziali per il Futuro. Con questo, non ho fatto nient’altro che ribadire alcune considerazioni scritte con Bruno Sasso nell’ultimo editoriale. Ol
tre all’aggiunta di alcune sfumature, la visione che sto adesso integrando, e che voglio sottolineare, è quella di una Manutenzione che è contributore, e protagonista, nel processo decisionale: porta sul tavolo informazioni di rischio, dinamicamente misurate e capaci di essere un elemento negoziale, da mettere in discussione con altri protagonisti del processo.
In tutto questo, servono anche gli “strumenti” di supporto alla decisione. Sono quelli che oggi offre lo stato dell’arte dovuto allo sviluppo tecnologico. Parliamo, nel linguaggio odierno, di Industria 4.0. Occorre, però, una particolare attenzione, a mio parere, a non mettere su un piedistallo l’Industria 4.0, come nuovo indirizzo per una idolatria spinta di diversi interessi… troppi… Io diffido di chi si riempie la bocca di Industria 4.0 per due motivi, di seguito discussi.
L’offerta del mercato delle tecnologie è molto ampia e, da esperienze di diversi end-user con cui ho potuto scambiare opinioni, posso affermare, con serenità, che non ci si può nascondere su un fatto: con l’hype dell’Industria 4.0, sono emersi non pochi apprendisti stregoni che cavalcano l’onda. Con questa affermazione, sono solo realista, e non voglio apparire come un reazionario. Anche da accademico, non solo da ingegnere industriale, so che le nuove tecnologie possono portare potenzialmente molto di buono per abilitare nuovi processi, decisionali e operativi. D’altronde, proprio sulla base della storia, direi che chi ha la cultura di Manutenzione nelle sue corde saprà fare una proposta adatta alle esigenze; non accadrà la stessa cosa, ne sono quasi certo, con chi si inventa esperto di Manutenzione dall’oggi al domani.
L’Industria 4.0 può rischiare di non essere un bene per l’azienda, quando mal gestita: si rischia, cioè, di fare un innesto su un tessuto non pronto, con conseguente crisi di rigetto. Mi spiego meglio. C’è tanta conoscenza nella cultura e nel processo manutentivo, e questa deve guidare nell’implementazione di nuove tecnologie (Internet of Things, Big data analytics, …): dimenticarsene sarebbe un errore, pensando che le tecnologie da sé risolvano i problemi, magicamente; al contrario, bisogna coinvolgere Manutenzione nello sviluppo applicativo delle nuove tecnologie. Allargando lo spettro in generale ai processi industriali, quello che vedo spesso in questo momento storico è lo sviluppo di use cases che portano ad una spesa mondiale non indifferente – con termini altisonanti, si usa dire che si fanno Proof of Concepts (anche PoC). Qualcuno dovrebbe fare emergere le cifre di spesa (io le ho viste in alcuni contesti), ma non solo. Si dovrebbe imparare anche dagli insuccessi, raccontati in trasparenza. Ad esempio, una domanda quasi ovvia a riguardo è la seguente: perché molte PoC non portano alla fase successiva di industrializzazione vera e propria? Essendo trasparenti, si potrebbe evitare il racconto della bella favoletta delle potenzialità dell’Industria 4.0, dopo buona cosmesi, ciò che a mio parere non porta gran valore aggiunto. Avere un insuccesso del genere in Manutenzione non è accettabile per varie ragioni, di spesa e non solo. Una ragione per me importante è addebitabile alla gestione del cambiamento: quando la tecnologia si è giocata la sua credibilità, è dura convincersi a continuare…
Per concludere, credo che, per far evolvere la Manutenzione serva un approccio bilanciato in cui i diversi portatori di interesse nella catena del valore possano essere coinvolti per contribuire alla cultura di Manutenzione. Nella catena del valore, ci metto di diritto, senza dubbio, l’Università, anche sulla base delle parole del mio amico. Dimenticarla in qualche occasione non è il modo migliore per far co-evolvere la Manutenzione nelle sue competenze, nelle pratiche organizzative e gestionali, e nell’uso delle nuove tecnologie abilitanti.
*[Per dovere di cronaca: il mio amico ha riletto il mio editoriale, proprio per evitare che sue parole fossero da me state male interpretate e, quindi, travisate]