Per la riflessione di questo editoriale parto da una constatazione ovvia: l’importanza del condition monitoring nei processi e nei piani di manutenzione degli asset industriali.
È a partire dal condition monitoring che si può sviluppare una manutenzione proattiva che, in primo luogo, può aiutare nella gestione delle operations di breve-medio termine, permettendo di conoscere puntualmente lo stato di salute degli asset e, quindi, consentendo una migliore valutazione dell’opportunità di programmare una fermata e della necessità di un intervento manutentivo in base alle condizioni. In secondo luogo, il condition monitoring può diventare una fonte di informazioni pregiate poiché permette di conoscere le condizioni di processo ed ambientali nelle quali l’asset viene utilizzato e, di conseguenza, le modalità con le quali il processo di degrado va sviluppandosi: questo è fondamentale per costruire una conoscenza profonda, utile nel lungo termine per migliorare l’affidabilità degli asset stessi. Inoltre, ricordo che di benefici del condition monitoring se ne parla da tanto e tanto tempo, ad esempio vengono citati, tra i vantaggi operativi: l’efficienza nell’organizzare gli interventi di manutenzione e l’impegno delle risorse necessarie; la riduzione di inutili manutenzioni basate sulla conoscenza statistica del degrado (ndr statistica basata sul tempo), troppo “grezza” per non rischiare sprechi anche elevati di materiali e ore di manutenzione; l’efficacia sulle prestazioni degli asset in termini di OEE, ecc.
E allora, con tutte queste evidenze, perché il condition monitoring è ancora parzialmente o addirittura scarsamente utilizzato in diverse aziende e settori dell’industria? Non si riesce a ritagliare più spazio nel budget / piano di manutenzione per il condition monitoring? Non si riesce a spingere di più rispetto alle normali practice avendo fiducia nelle “promesse” che si leggono nella letteratura tecnica e scientifica? Al contrario, non si crede nelle “promesse”? O, peggio ancora, non si ha la forza e/o la capacità di giustificare le scelte in termini tecnici ed economici? Per contrasto, mi permetto di osservare che, anche per l’effetto benefico di una politica industriale che agevola investimenti in tale direzione, oggi si scopre che la predictive maintenance (citata come una delle innovazioni della manutenzione 4.0 …) è la soluzione di tutti i mali … quando per diversi anni ci si è dimenticati di sfruttare le opportunità di un ricco insieme di risorse, già disponibili dall’automazione del processo, come sensori e dati, usabili anche proprio per il condition monitoring e la predictive maintenance! Si dirà che c’è una convergenza favorevole in termini di sviluppi tecnologici, d’accordo; ma non è solo questo ciò che rende sostenibile strategie avanzate di manutenzione.
Sono stato un po’ “corrosivo” per provocare una reazione e riflessione per muoversi su una roadmap che sia realmente sostenibile, nel lungo termine, per l’introduzione delle nuove tecnologie che promettono strategie avanzate di manutenzione. Per questa roadmap, alcuni ingredienti sono, a mio parere, fondamentali.
Il condition monitoring – e quindi la predictive maintenance che ne può conseguire – è una soluzione tecnologica per innovare il processo, non solo quello di manutenzione, ma anche quello di produzione. Come tale, non è una soluzione che vive e si giustifica da sola, serve una visione sistemica dell’impianto industriale in cui il condition monitoring e la predictive maintenance vengono pianificati.
La gestione del ciclo di vita degli asset industriali è fondante per lo sviluppo del condition monitoring e della predictive maintenance: nel migliore degli auspici, l’investimento in strategie avanzate basate su condition monitoring / predictive maintenance nasce già nel progetto dell’impianto industriale, con gli ovvi benefici che si possono attendere a lungo termine nelle operational expenditures, nella produttività e negli impatti ambientali; nel caso di brown field, il ciclo di vita dell’asset, ora visto in ottica di life cycle extension dell’asset medesimo, può ancora fungere da riferimento per giustificare, ad esempio, eventuali strategie di retrofitting fondate sul condition monitoring.
Accanto all’asset lifecycle management, un altro pilastro che permette di guidare verso la crescita progressiva e oculata del condition monitoring/della predictive maintenance è la gestione del rischio (risk management): la capacità di differenziare gli asset in funzione della loro criticità, sia all’inizio che in estensione di vita, è fondamentale per garantire l’oculatezza della spesa e un orientamento al decision-making manutentivo realmente efficace.
Queste riflessioni nascono da diversi casi reali in cui ho potuto riscontrare evidenze varie, sia in termini di best che di worst practices.
Citando i casi virtuosi, ho osservato scelte – già nei team di progetto della soluzione di condition monitoring / di predictive maintenance – che andavano a creare un coinvolgimento esteso, ben al di là della funzione Manutenzione, ed assimilabile all’integrazione funzionale auspicata dall’asset lifecycle management. Inoltre, ho notato un processo di risk management calato nel processo manutentivo, come elemento saliente per creare la capacità di differenziare le scelte a partire dagli impianti e dalle loro criticità, per arrivare, da ultimo, allo sviluppo di strategie di condition monitoring e predictive maintenance a misura delle criticità.
Come stimolo e provocazione finale, concludo quindi affermando che lo sviluppo di strategie avanzate di manutenzione – basate su scelte bilanciate di condition monitoring e predictive maintenance – può essere vincente e sostenibile nel lungo termine se viene integrato con un orientamento alla gestione del rischio che permette decisioni veramente smart nel ciclo di vita degli asset industriali. Tutto il resto è … moda?
Prof. Marco Macchi, Direttore Manutenzione T&M